Central and East European
Society for Phenomenology

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La tecnica in Günther Anders

Andrada Ioana Lazar

pp. 115-145

Lines

La tecnica

1Riferendosi alla tecnica, Anders intende il rapido processo di svi|luppo tecnologico che ha preso piede a partire dalla Prima Rivoluzione Industriale. Esso nasce dalla necessità dell’uomo di trasformare la natura, garantendogli così la sopravvivenza, il benessere e la capacità di giungere a una comprensione più profonda di un mondo da cui è stato accolto aspramente, senza uno scopo evidente o una parte propriamente sua. Una volta preso piede però, la tecnologia si è emancipata dal ritmo di sviluppo umano e ha imposto le proprie regole.

2La tecnica descritta da Anders si avvicina alla concezione che se ne ha correntemente di essa. Si tratta di un insieme di apparati organizzati in un sistema totalitario, che cerca di espandersi in modo assoluto, controllando e piegando al suo bisogno tutto ciò che lo circonda. “Mentre fino a ieri gli strumenti e gli impianti da noi prodotti servivano a ingabbiare e addomesticare le forze naturali, oggi le forze dei nostri prodotti sono così illimitate che siamo costretti a domare i prodotti stessi” (Anders 1961, 74).

3Nasce un nuovo compito per l’uomo: se prima esercitava liberamente la sua potenza creativa, ora è costretto a imparare a distruggere, smaltire i propri prodotti. Compito non facile per l’uomo, incapace di “disapprendere” ciò che sa. Anders parla di un patrimonio tecnico e scientifico irrevocabile che costringe l’uomo contemporaneo a vivere in eterno coi propri rifiuti e coi propri sbagli. Un esempio lampante è la bomba atomica, strumento mostruoso, la cui conoscenza non può più essere cancellata. Non si può più annullare la possibilità di distruzione dell’umanità; piuttosto si deve vivere con questa consapevolezza e imparare a gestire questo dato di fatto.

Vergogna prometeica

4L’uomo di Günther Anders nasce come uomo senza mondo e muore lasciando un mondo senza uomo1. Non è difficile capire questo cammino: Anders vede nell’uomo un essere sradicato dal mondo in cui è posto, incompleto perché privo fisiologicamente sia di strumenti difensivi che adattivi in relazione ad un ambiente ben definito (Cfr. Gehlen 2003). A causa della sua indeterminatezza, quest’essere ricorre alla flessibilità del suo corpo e soprattutto delle sue capacità cognitive, per approdare nella sicurezza dell’artificialità, ovvero della tecnologia2. In seguito a questo atto prometeico però, l’uomo è costretto a cedere il passo alla sua creazione. La tecnica comincia a dettare i ritmi di sviluppo umani: l’artefice viene declassificato a semplice operatore. Il nuovo mondo tecnico eccede l’uomo, diventa “troppo”. La macchina, nel perseguire il principio di “massimo rendimento”, sviluppa una fame di espansione che la porta a inglobare tutto ciò che può prestarsi al proprio servizio. In questo processo il mondo viene riconfigurato in una struttura tecnologica totalitaria, da cui va espulsa ogni esistenza inutile o poco efficiente. Usando questa unità di misura, l’uomo, ormai assistente della macchina, si sente inadatto, rischia di diventare un puro residuo. Si viene a creare il cosiddetto “dislivello prometeico”. Se da un lato egli è padre e parte della macchina, dall’altro è una creatura organica, fraglie e rigida; nulla se comparato all’immortalità, cioè all’infinita sostituibilità ed esponenziale miglioramento, della macchina. Nasce così in lui un turbamento dovuto alla mancanza di identificazione completa con il suo prodotto artificiale. Egli deve infatti “trasferire il suo centro nella macchina, quindi deve essere se stesso e non deve essere se stesso a un tempo” (Anders 2007, 90). Questo turbamento viene chiamato “vergona prometeica”.

5Per colmare questa mancanza, reazione che Anders annovera tra i tanti sintomi della vergogna, l’uomo ignora i limiti organici e cerca addirittura di superarli ricorrendo allo Human Engineering. Non è tanto l’alterazione del proprio corpo a scandalizzare, dato che la natura dà comunemente vita alle mutazioni, piuttosto è il modello in vista del quale viene intrapresa questa alterazione; come dirà Anders nel L’uomo è antiquato: “ci autotrasformiamo per amore delle nostre macchine” (Anders 2007, 52). Se l’uomo perde sé stesso come riferimento, se i bisogni della macchina vengono presi come unità di misura, alle azioni umane viene a mancare tutto ciò che la macchina, nel suo evolversi, può considerare superfluo, come, per esempio, un controllo etico. Per di più, nell’affidare completamente le proprie energie all’espansione dettata dalla tecnologia, l’uomo perde la libertà di decidere da sé lo scopo delle proprie azioni, i possibili problemi risultanti, ciò che è lecito o non lecito fare. Questa cecità può portare al compimento di atti disumani di cui nessuno è realmente in grado di rendere conto. Si vengono a creare incolpevoli colpevoli in una situazione complessamente paradossale.

Il destino della mostruosità

6L’uomo descritto sinora, controllato dai bisogni della macchina, intesa qui come sistema di macchine, perde di vista sia lo scopo che gli effetti finali del proprio agire. Proprio a questo livello si innesta il destino della mostruosità, ampiamente affrontato in una raccolta di lettere, inizialmente indirizzate al figlio di Adolf Eichmann, Klaus, e poi pubblicate per un pubblico più vasto, direttamente interpellato tramite il titolo: Noi figli di Eichmann (Anders 1995)3. In questo noi rientra chiunque sia nato nel mondo della tecnologia, che tutto piega al suo volere.

7Per mostruosità si può intendere la violenza dell’umanità contro l’umanità, di cui è stato dato più volte esempio, da Auschwitz alla creazione e sgancio della bomba atomica. La storia tuttavia è già stata precedentemente testimone di innumerevoli violenze fatte dall’uomo sull’uomo, ma questi ultimi eventi hanno avuto una portata ben maggiore.4 Il termine mostruosità prende senso solamente se viene considerata la facilità e la banalità, pervenute tramite la tecnologia, con cui sono state portate a termine siffatte atrocità. Si tratta di una facilità che espropria chi opera di ogni potere decisionale e di ogni conseguente responsabilità riguardo agli effetti. Il campo delle azioni non va pensato confinato solamente al lavoro militare, esso coinvolge ogni ambito lavorativo e penetra le abitudini quotidiane di chiunque segua i moduli tecnologici.

8Così dunque il mondo contemporaneo condivide questa irrevocabile sorte, sia che essa si compia tramite un’azione più o meno diretta o una vergogna condivisa per il semplice fatto di appartenere a una specie, quella umana, capace di simili violenze. Come è possibile una mostruosità del genere? Queste azioni sono compiute in piena consapevolezza? C’è una relativa responsabilità nei confronti di questi atti e fino a che punto? Seguendo sempre l’analisi delineata da Anders in Noi figli di Eichmann, esistono due “radici” che hanno reso possibile il compiersi di tali mostruosità e hanno tolto la sicurezza che queste possano essere considerate come eventi del tutto eccezionali. L’una tocca la rottura tra la parte produttiva dell’uomo e la parte morale, mentre la seconda tratta del processo di frammentazione del lavoro tecnologico. Le due radici nascono come parti essenziali della tecnica.

Produzione e Riproduzione

9 Nella corsa al perfezionamento tecnico l’uomo si è lasciato alle spalle la capacità rappresentativa del proprio fare. È diventato a tutti gli effetti inadatto, se non addirittura impossibilitato, a concepire sia il ruolo della propria prestazione personale all’interno del complesso in cui opera sia le conseguenze che possono scaturire dai risultati del proprio lavoro, ad esempio l’impiego di ciò che viene prodotto. In altre parole, l’uomo nell’età della tecnica si scontra con l’impotenza di quantificare e tracciare il proprio contributo in una società e un’industria ormai pienamente automatizzate. Se lo sviluppo tecnologico non ha limiti, la possibilità di riprodurne le conseguenze ha dunque una portata decisamente limitata. Quest’ultima, descritta come “forza immaginativa”, fa parte del corredo ormai antiquato con cui l’uomo è venuto ad essere. Essa permetterebbe di presagire come le proprie scelte e azioni condizionino la vita futura, ma questa capacità all’espansione macchinale è d’intralcio. Le due forze, produttiva e immaginativa, esistono rispettivamente in un rapporto inversamente proporzionale: maggiore è l’espandersi produttivo e consumistico, minore è l’immaginazione impiegabile nell’inseguimento del progresso industriale, quando invece essa dovrebbe precederlo con una chiarezza comprensiva. Così Anders avverte:

[…] noi non solo siamo esclusi dalla proprietà dei nostri mezzi di produzione – come ritenevano i nostri nonni – ma anche dalla proprietà dei nostri obbiettivi di produzione; […] Oggi […] vale il fatto che la fabbricazione di prodotti ostili all’uomo è il perno di molte economie nazionali. È uno scandalo che noi lavoratori non reagiamo a questo scandalo, che esso ci resti indifferente. È uno scandalo non solo perché con questa indifferenza noi rinunciamo alla nostra stessa libertà, ma anche perché con essa mettiamo in gioco la sopravvivenza dell’umanità. (Anders 1990, 38-39)

10La facoltà immaginativa dovrebbe far scattare forti sentimenti, dissenso e opposizione, che una volta emersi andrebbero a frenare le azioni più pericolose. Ma, grazie al contributo della tecnica, per compiere una strage di massa basta un semplice gesto, come quello di premere un pulsante, dal momento che “abbiamo raggiunto il traguardo, così meravigliosamente avanzato, che qualunque abitante della nostra terra può essere colpito a morte da qualsiasi punto di questa terra” (Anders 1990, 41) e questo oltrepassa l’eventualità di immaginarne ogni possibile esito. Sorge a questo punto l’interro|gativo se questa mancanza di forza immaginativa sia dovuta ad un’intrinseca rigidità e limitatezza umana oppure se sia possibile esercitarla e rafforzarla come soluzione al problema del mostruoso.

“Macchinizzazione” come totalitarismo

11Quella che viene descritta come seconda radice del mostruoso ha origine nel principio stesso della macchina. Si tratta della già menzionata incessante fame di espandersi. Avendo la macchina inglobato, in un’impresa totalitaristica, l’ambiente circostante, lo scandisce in moduli a essa favorevoli. Con ciò s’intende che, essendo l’insieme di apparecchi un sistema complesso, ogni macchina o ogni sua parte ha un compito specifico e chi la assiste deve attenersi a nient’altro che questo. Ogni operatore dovrà ridurre il suo lavoro a gesti specifici, ma non solo: anche la sua conoscenza sarà delimitata in base a quanto è strettamente necessario. Infatti:

L’acuirsi dell’attuale divisione del lavoro non significa altro che noi in quanto lavoranti e agenti siamo condannati a concentrarci su piccolissimi pezzi dell’intero processo; e questo significa che nelle fasi di lavoro a cui siamo assegnati ci troviamo stretti proprio come lo sono i carcerati nelle loro celle. (Anders 1995, 53-54)

12Se l’uomo manca di immaginazione o della capacità di comprendere con chiarezza, è dovuto principalmente al fatto che non gli è dato di vedere l’intero apparato. La “fasizzazione” del lavoro interrompe la concatenazione di cause ed effetti e impedisce di giungere all’effetto finale. Questo processo crea i cosiddetti incolpevoli colpevoli, riprendendo ancora una volta le parole di Anders: “Ai milioni di lavoratori di oggi dobbiamo veramente concedere il fatto che essi, sebbene complici del mostruoso, restano pur sempre dei complici innocenti” (Anders 1995, 41-42).

Analfabetismo emotivo

13Le mostruosità permesse dalla tecnica a partire dal XVIII secolo hanno portato l’uomo a confrontarsi con nuovi sentimenti e altrettanti imbarazzi. Fin qui è stata analizzata l’inadeguatezza dell’uomo come essere insostituibile, fragile e dalla fantasia limitata. Rimanendo sempre nell’ambito dell’immaginazione, l’uomo si trova carente non solo nel rappresentarsi l’effetto ultimo delle sue mansioni, ma anche nel percepire la concretezza dell’effetto, una volta accaduto. Una mostruosità è tale perché indefinibile, i suoi esiti sono smisurati, eccedono la capacità umana di concepirla a pieno. Di fronte al “troppo grande” manca la forza di reazione, manca addirittura la capacità di riconoscere il mostruoso:

Diventiamo degli «analfabeti emotivi», i quali, dovendosi confrontare con dei «testi troppo grandi», non si accorgono neanche più di averli davanti agli occhi. Sei milioni per noi rimane una cifra, mentre se si parla di dieci assassinati forse in noi in qualche maniera riecheggia un qualcosa, e un solo assassinato ci riempie di orrore. (Anders 1995, 34)

14Uno degli strumenti più criticati da Anders, nel descrivere fenomeni di tale portata, è la statistica. Essa vuole contenere l’incontenibile dentro ad un numero, di per sé inadatto a provocare una reazione pertinente nell’animo umano. Pretendere di descrivere la realtà dei fatti tramite un numero è un atto di ipocrisia e di autoinganno. Non è possibile figurarsi i sessantamila morti di Hiroshima o i sei milioni5 di ebrei uccisi nella Germania nazista. Per di più, Anders vede in chi si avvale della “forma statistica” l’intento di sminuire e razionalizzare un evento catastrofico, portandolo sotto la sfera di ciò che suona più familiare. Riguardo alla statistica egli afferma : “La forma statistica, che ispira fiducia con la sua chiarezza, conferisce un aspetto igienico anche alle rovine fumanti” (Anders 1961, 137).

La discrepanza

15In Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Anders descrive il proprio stupore di fronte alla reazione generale delle vittime di Hiroshima, che egli ha l’occasione di conoscere. Ciò che avverte in queste persone è uno smarrimento: esse si trovano incapaci di dirigere il proprio rancore verso chi le ha rese vittime. Il semplice nesso assassino-vittima è stato rotto dai moduli dettati dalla tecnica e questa rottura si nutre delle stesse radici della mostruosità. Infatti, ad alimentare le atrocità contemporanee sono funzionari o operai, costretti a minimi e precisi gesti, incompetenti in ciò che va oltre ai propri incarichi, incapaci di sentirsi partecipi di un’unica, grande colpa. Dall’altra parte le vittime non possono puntare il dito contro un unico colpevole, il loro odio non ha indirizzo. Questa distanza viene ulteriormente ingigantita dalla potenza di armi sempre più prestanti: attraverso il loro incessante perfezionamento, l’uomo ha ottenuto l’annullamento temporale e spaziale dei propri effetti6. Il “luogo dell’azione” non coincide più con “quello della passione”. Perciò la vittima non può guardare in faccia il suo carnefice: egli è distante e scomposto in un numero indefinito di “piccoli” uomini. L’individuo guarda alla realtà attraverso uno schermo rotto e percepisce così un’immagine spezzettata degli eventi nel mondo. Questa incapacità di raccogliere i pezzi di verità ha prodotto un successivo paradosso: si attua una divisione anche tra colpa e rimorso. Da una parte c’è chi pecca senza provare colpa, dall’altra c’è chi si pente, senza alcuna trasgressione commessa. E ciò, va ricordato, non è dovuto solo ad un animo umano instabile, ma alla “schizofrenia” degli eventi stessi.

16Se tutte queste conseguenze sono inevitabilmente collegate all’esis|tenza stessa della tecnica, prodotto a cui l’uomo è sì legato, ma non necessariamente sottomesso, c’è l’occasione e l’obbligo di prendere una via d’uscita. Il pessimismo andersiano è spesso stato messo in risalto poiché vede insita nella tecnologia la possibilità dell’estinzione umana. Viene invece dato poco rilievo all’oppor|tunità, segnalata da Anders, di un riscatto. Si tratta pur sempre di un riscatto tardivo, che nasce nel ventre del fallimento dinanzi all’incedere della macchina.

Fallimento come nascita del sentimento di responsabilità

17Se l’uomo prendesse atto della sua insufficiente forza immaginativa, potrebbe imboccare una via di redenzione. Nel riconoscere di aver fallito, egli sarebbe “colto dalla salutare paura nei confronti di ciò che stava per provocare” (Anders 1995, 40). C’è in definitiva una speranza che l’uomo si ridesti e recuperi la responsabilità, ma si tratta di un percorso non ben tracciato da Anders, che accenna soltanto a questa possibilità. A renderla ancora più fragile è il fatto che essa dipenda da un previo uso dell’immaginazione. Il fallimento, infatti, nasce da un tentativo di concepire la portata di un’azione. L’immaginazione, come è stato visto in precedenza, è labile, soccombe facilmente allo sforzo di rappresentarsi azioni che sconfinano il proprio spazio e tempo. Dunque, chi provasse a impiegarla, per concepire gli effetti di una prassi tecnica, inorridirebbe dinnanzi all’inafferrabile enormità. Ma pochi intraprendono questo impegno, che pretende di rompere l’esecu|zione ripetitiva ma familiare dei propri compiti tecnici. Sembra che si possa fare ben poco per chi, come i tanti operai della modernità, dipende dalle specifiche mansioni e non riesce a guardare alla totalità di cui fa parte. C’è chi però si avvia o ha la fortuna di trovarsi sulla strada dell’immaginazione e del conseguente fallimento, ma per giungere alla responsabilità manca ancora un gesto.

18Una volta giunti alla sconfitta, ci si può immaginare un bivio di fronte a cui si è posti: la si può negare a tutti i costi e prevenire l’insorgere di un sentimento di colpa, oppure la si accetta e si affrontano gli orrori commessi, anche solo in parte (e proprio in quanto parte). Si deve prendere la chance di “resistere al mostruoso”: bisogna ammettere la mancanza, tornare sui propri passi e capire dove finisce la propria intenzione e dove comincia l’imposizione di una volontà altrui. La nascita della responsabilità ha luogo dentro a questo cortocircuito, come un prendere coscienza dell’oscurità in cui è avvolta la totalità macchinale.

19Sul modo di procedere, a partire da questo shock, Anders non dice molto. Sembra che si affidi alle risposte intuitive che la crisi della coscienza troverà da sé; essa può portare a una “positiva opportunità morale” come ad un’angoscia patologica.7 è, in effetti, una risposta emotiva di paura a risvegliare il sentimento di respon|sabilità. Il provare paura diventa un atto di coraggio, utile strumento di reazione all’occultismo del sistema tecnologico. Ma ancora una volta, ci si trova carenti in fatto di soluzioni, e non solo: a mancare sono anche le premesse. Ammesso che sia fuori di dubbio la necessità di un risveglio morale, da che basi si deve partire per creare regole e atteggiamenti morali?8

20Anders riconosce di non avere in possesso simili fondamenti da cui far partire le proprie regole etiche e aggiunge: “non trovo neppure che si debba perire perché non si può dimostrare che dobbiamo esistere” (Anders 1961, 83). L’urgenza sentita di fronte all’apocalisse, annunciata dalla bomba atomica, non permette di sostare su interrogativi ontologici.9 Le risposte date dal filosofo nascono tutte da esigenze pratiche impellenti, la cui prima difficoltà è far prendere atto della realtà del pericolo, ovvero una più che avverabile fine dell’umanità. Gli sforzi filosofici di Anders, spesso disperati, sono compiuti in questo tentativo di risveglio emotivo: portando luce su quanto accade sotto gli occhi di un’umanità in corsa verso il progresso tecnologico, egli cerca di scuotere ciò che ritiene sia rimasto della moralità.

21Anche i percorsi morali tracciati in risposta al mostruoso non convergono spesso tra loro e anzi sono presentati frammentariamente e in modo poco lineare.10 Con il primo volume del L’uomo è antiquato (1956) vengono promossi “esercizi di estensione morale”, un modo per vincere il “dislivello prometeico” rinforzando il potere immaginativo, contro la prevalente richiesta di Human Engineering. Quali siano questi esercizi e che effetto debbano avere non è molto chiaro. Ancora nel 1961, con Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki, vengono aggiunti ulteriori indizi riguardo a una rinominata “educazione alla fantasia”. Qui la fantasia è l’unico modo per avvicinarsi alla verità, mentre della coscienza si deve diffidare, dato che questa può essere stata modellata secondo i bisogni del totalitarismo tecnologico, che, coi suoi modi di occultamento, salva dalla colpevolezza. Finché non ci si crede colpevoli, si rimane innocenti. Bisogna pensare allora alla grandezza degli effetti che possono avere le azioni potenziate dalla tecnica. L’immaginazione ha il compito di ampliare il senso di tempo e spazio, cosi che le emozioni possano recuperare la distanza creata dall’enormità delle azioni e fornire la capacità di reagire opportunamente. Acquisendo la coscienza di essere “concittadini dello stesso tempo e dello stesso spazio” si agisce unitamente per salvaguardarsi.

22Nella stessa opera Anders sente la necessità di tracciare un codice di regole, promulgate dai cittadini, “dal basso”, e dirette a chi detiene il potere d’uso della bomba atomica.11 L’obbiettivo più importante diventa in tal modo generare una consapevolezza nei leader, che si avvalgono della bomba per garantire una supposta sicurezza al proprio stato. Egli ha l’occasione di realizzare concretamente una serie di norme, o meglio “leggi senza forza di legge”, durante il Fourth World Conference against A and H Bombs and for Disarm|ament a Tokyo, nell’agosto del 1958. L’esperienza, sebbene ricca di preziose conversazioni e intese internazionali, risulta deludente agli occhi del filosofo.12 Questo fatto è rilevante invece per notare una nuova tendenza nella filosofia andersiana: i potenti sono tenuti a doveri maggiori nel preservare l’umanità. Pertanto gli esercizi morali per sé non bastano e vanno rinforzati da codici morali.13 Col secondo volume del L’uomo è antiquato (1980) il potenziamento dell’immaginazione rimane un argomento dimenticato. Si fa strada il tema della resistenza violenta a chi minaccia la sopravvivenza dell’umanità, chiaramente descritto nel saggio Gewalt. Ja order nein. Eine notwendige Diskussion (1987). L’approdo ad un “pacifismo violento”, ovvero la rinuncia al pacifismo per combattere “violenza con violenza”, è visto come necessario in un momento storico in cui resistere simbolicamente tramite parole o manifestazioni pacifiste diventa un “puro teatro festivo”, già assimilato dai sistemi totalitari moderni come uno sfogo attraverso cui annullare ogni disaccordo. L’arrendersi alla contro-minaccia violenta è stata vista dalla critica come una risposta sconsolata che andava a confermare la debolezza della precedente proposta di rinforzare l’immaginazione.14

23 L’aporia a cui si giunge porta a pensare che la filosofia di Anders sia una sconfitta sin dall’inizio, data la situazione apocalittica in cui l’uomo è collocato e “l’antiquatezza dello strumentario morale” (Portinaro 2003, 157) assegnatogli dal destino. Ciò non toglie però il problema di partenza ovvero, l’importanza di prendere atto dei meccanismi con cui si presenta e il bisogno di una rinnovata ricerca di soluzioni, poiché, come ricorda Anders, in un sorprendente inno alla vita:

[…] il mondo è un’invenzione ingegnosa e incomparabile, un’organizzazione che vale la pena di conservare. E che starci fa piacere. E che voglio bene agli uomini che ci stanno. E che l’idea che tutte le gioie e i dolori che hanno vissuto e che vivono tuttora siano stati vani, e che in futuro la terra sarà una sfera deserta nella desolazione dell’universo, non mi piace affatto. E che mi serra la gola! (Anders 1961, 82).

Emblemi del mondo tecnico

24In questo mondo governato dalla tecnica l’uomo ha raggiunto la sua “soglia massima”; la sua concezione tradizionale di moralità, di colpa o di male è entrata in crisi nel momento in cui il colpevole è diventato anonimo e il sentimento di colpa è diventato una condizione universale.15 Nella schizofrenia degli eventi, è caduta la possibilità di distinguere colpevoli e innocenti e i perseguitati non riconoscono più i perseguitori, né questi ultimi riescono a considerarsi come tali. Come conseguenza, alle vittime viene tolta non solo la possibilità di odiare, ma anche di riconoscersi come vittime e, nel mentre, l’ignoranza dei colpevoli “non turba i loro sogni”. Anders riassume acutamente la generale situazione, nata come divisione del lavoro e diffusasi ulteriormente come divisione della colpa: “gli uni lo fanno, gli altri arrossiscono” (Anders 1961, 77).

25Nella società di massa così descritta, figure come il funzionario Eichmann, il “banale sterminatore”, rischiano di non essere più eccezioni. A ciascuno può presentarsi l’occasione di creare “stragi a distanza” e aver comunque garantita l’immunità dalla colpa. Il mostruoso, percepito come evento singolare per la sua calamità, può ripetersi e accadere ancora, sotto nuove vesti, a causa dell’irrevoca|bile situazione apocalittica in cui si trova il mondo presente. L’umanità è vincolata ad uno stato permanente in cui può “perire di mano propria”. Un ulteriore esempio si ha in un altro continente, sotto un regime democratico, che addestra un giovane pilota di 24 anni, Claude Eatherly. Nella fiducia di poter difendere la libertà del proprio paese, il giovane eccelle nella carriera militare e compie con costanza e con fierezza il proprio lavoro. Eppure, dopo il fatidico momento dello sgancio dell’atomica, Claude, che ne aveva preso parte solamente in funzione di semplice meteorologo, viene travolto da un insostenibile senso di colpa, così diventando un altro complice della “banalità del male”.

26Anders ha proposto queste due figure come simboli della quoti|dianità raggiunta dal mondo attuale, che, appropriatosi del codice tecnico e avendo perso il proprio, deresponsabilizza i suoi cittadini e fa vivere loro ogni situazione con indifferenza. Nelle lettere mai ricambiate, Anders ricorda a Klaus Eichmann che

[…] uomini come Eichmann sono davvero qualcosa di assolutamente emblematico della condizione del nostro mondo odierno; essi sono perfino inevitabili. Infatti in diversi paesi del mondo ci sono singole persone che sono costrette a vivere nella Sua stessa infelicità. Per esempio il pilota di Hiroshima Claude Eatherly. E ciò che accomuna questi Suoi sconosciuti compagni di dolore è il fatto che loro non sono dei casi singoli, ma degli emblemi; il fatto cioè che loro non sono semplicemente vittime di una sfortuna di orribili dimensioni, bensì sono simboli di qualcosa che è orribile. (Anders 1995, 26-27).

27Eppure, questi emblemi della mostruosità sono antitetici: l’esempio di Eatherly offre una chance di reazione alla comoda indifferenza che l’apparato ha garantito a Eichmann.

Il destino di Eichmann

28Eichmann iniziò la sua storia come giovane ambizioso, perseguitato dalla sfortuna e dalla noia16. La sua carriera nel Servizio di Sicurezza diventò un importante motore per il tanto noto quanto sfortunato massacro. Non è chiaro ciò che lo spinse all’azione. Da una parte sembrò affascinato da ogni forma di idealismo: da quello presente nella cultura ebraica, che lo portò a diventarne “esperto” e punto di riferimento in materia, a quello nazista, che richiese prontezza nel sacrificare tutto per le idee a cui volle aderire. Dall’altra parte presentò uno smisurato zelo nel compiere il proprio lavoro, il quale inizialmente riguardava l’espulsione dalla Germania degli ebrei e a partire dal 1941 si trasformò nella loro eliminazione fisica. Hannah Arendt propone di Eichmann una descrizione accurata:

Doveva essere smanioso di far bene, e in effetti raggiunse risultati spettacolari: in otto mesi quarantacinquemila ebrei lasciarono l’Austria, mentre nello stesso periodo soltanto diciannovemila lasciarono la Germania; in meno di diciotto mesi l’Austria fu “ripulita” da circa centocinquantamila persone […] che abbandonarono tutte “legalmente” il paese (Arendt 2001, 52).17

29Eichmann trasformò l’espulsione degli ebrei in una incredibile “catena di montaggio” burocratica da cui, attraverso una serie di passaggi automatizzati, ogni ebreo ne uscì “senza un soldo, senza più nessun diritto, solamente con un passaporto” (Arendt 2001, 53). Questo traguardo rappresentò un periodo di gloria nella sua vita ed ebbe termine, seguendo le confessioni che egli stesso fece durante il proprio processo, con l’inizio ufficiale della “soluzione finale”. Si può ammettere quanto detto da Eichmann: egli non avrebbe mai ideato una simile soluzione e tentò addirittura di proporre possibilità alternative, come il piano Madagascar (Arendt 2001, 83). Nonostante ciò, proseguì impeccabilmente il proprio lavoro, sebbene ormai egli fosse diventato un semplice strumento e avesse perso l’interesse e il gusto di lavorare. Anche dopo le terrificanti visite a Kulm e a Lublino, dove Eichmann partecipò di persona alle carneficine, pur restandone turbato, non smise di continuare con orgoglio il suo “lavoro spicciolo” e automatizzato. Il 31 maggio 1962 fu giustiziato in seguito alla condanna di morte per aver commesso delitti “contro la condizione umana”. Il tribunale però fallì nel tentativo di estrapolare da Eichmann una confessione morale, motivo per cui il processo si prolungò talmente tanto secondo Arendt, dato che le prove erano sufficienti per incriminarlo già dall’inizio.

30Considerando quanto detto, a livello morale di cosa si rese conto Eichmann? Arendt racconta: “Eichmann […] aveva sempre soste|nuto di essere colpevole soltanto di avere “aiutato e favorito” i delitti di cui era accusato, e di non aver mai commesso personalmente un omicidio” (Arendt 2001, 253). Attenendosi a ciò che un tribunale può considerare rilevante, non si conclude molto su come Eichmann abbia vissuto la conseguenza morale dei suoi atti, ma si possono capire i motivi che facilitarono tali gesti. Eichmann si assicurava incessantemente di compiere qualunque azione come “cittadino ligio alla legge” (Arendt 2001, 142), controllava che ogni ordine fosse scritto e sostenuto dall’autorità della legge o dei capi superiori. Sicuro di non aver “mai deciso nulla da sé” (Arendt 2001, 102), proseguiva i suoi doveri con tranquillità di coscienza e addirittura con il prospetto di giungere a una futura glorificazione. Eppure, se è vero che egli “non vide mai al di là del ristretto orizzonte delle leggi e dei decreti vigenti in un determinato momento” (Arendt 2001, 164), allo stesso tempo organizzò di pugno proprio massacranti marce a piedi, una volta venuto meno l’appoggio delle ferrovie, in un periodo in cui i capi superiori, fiutata la prossima sconfitta, cominciavano a fare marcia indietro nella persecuzione degli ebrei. Pertanto, non tutta la colpa di Eichmann venne dall’obbedienza. È così dimostrato che anche se Eichmann avesse voluto attenuare la propria colpa, ritenendosi un semplice strumento nelle mani di un male superiore, egli di fatto non lo fu. Non solo non cercò di evitare “inutili brutalità” ma addirittura le facilitò. Credeva ciecamente nell’ideologia nazista e ne faceva una carriera e un motivo di vanto.

31Che i motivi siano da ricercare nell’ignoranza, dunque? Eichmann, come già visto, non ignorò l’atrocità a cui mandava incontro i suoi convogli. Egli non fu nemmeno cieco di fronte a una alternativa al sistema, dati gli esempi di opposizione di Stati come Belgio, Olanda, Danimarca e per certi versi Italia, che senz’altro ebbe la possibilità di conoscere. È certo che Eichmann avesse condotto un’esistenza banale e può essere la causa che lo spinse a cercare riconoscimento in imprese sbagliate. Ma la grandezza della mostruosità a cui prese parte non avrebbe non potuto fargli mettere in dubbio la pertinenza di questi atti.

La prospettiva di Anders

32Eichmann ebbe l’opportunità di arrivare di fronte al bivio del fallimento, ma egli imboccò la via della spietatezza invece che quella della responsabilità. La colpa di quest’uomo è, seguendo quanto dice Anders in Noi figli di Eichmann, senza dubbio mostruosa, dal momento che egli operò in vista di un effetto finale affatto chiaro:

[…] di lui si può dire che l’immagine del mostruoso effetto finale deve essere stata la prima cosa che ha avuto davanti agli occhi, e che lui ha potuto co-progettare, co-costruire e co-dirigere l’ingranaggio solo grazie a questo effetto finale; […] l’immagine e il concetto del risultato finale è stato il trampolino della sua attività. (Anders 1995, 37)

33Malgrado il limite del suo lavoro burocratico e la presunta scarsità del suo potere intuitivo, Eichmann poté senza dubbio partecipare a conferenze in cui veniva deciso il destino degli ebrei. Anders ricorda, infatti, che questo grigio burocrate “assistette di persona alla distruzione fisica di coloro di cui registrava accuratamente, nei suoi schedari, i nomi e i denti d’oro” (Anders 2016, 209). Certo, l’immaginazione di Eichmann, nello svolgimento del suo lavoro, fallì più di una volta nel rappresentarsi integralmente l’esito finale, data la difficoltà umana a concepire a pieno l’eliminazione di un numero così elevato di persone. Pur di rifuggire la presa di coscienza dettata dal cortocircuito, Eichmann preferì diventare vittima di sé stesso. Infatti, riuscì a schermarsi dalle immagini delle vittime, rifugiandosi proprio nell’inadeguatezza dell’immaginarsi la meta del suo progetto. Per di più: “egli dovette fare di tutto per contrastare il pericolo di un’irruzione fisiologica della morale nella sua attuazione del progetto” (Anders 1995, 45). Il fallimento è stato in breve trasformato in una finta pretesa di cecità. Eichmann tentò di giustificarsi facendosi piccolo e sminuendo il potere della sua posizione, ma ingiustamente: la sua cecità non ebbe nulla a che fare con l’ignoranza a cui furono davvero forzati i lavoratori subalterni, vere “rotelle” dell’atroce ingranaggio.18 Eppure, nemmeno l’argomento della discrepanza può essere usato per giustificare l’inevitabilità del male. Anders ricorda che la predominante legge della discrepanza non deve essere vista come una comoda sconfitta, ma va integrata con una presa di responsabilità. L’esperienza del fallimento non deve scoraggiare ma ammonire chi può aver imboccato un destino simile ad Eichmann:

La regola […] secondo cui la forza del nostro sentire diminuisce con il crescere della mediazione delle nostre attività e con il crescere della grandezza degli effetti dei nostri atti, e secondo cui il nostro meccanismo d’inibizione va completamente fuori uso a partire da una certa soglia massima – non basta per fare di Suo padre una vittima dell’attuale situazione, né basta per considerarlo testimone principale di ciò che in base a questa regola potrebbe capitare a noi uomini, assolvendolo così dalla colpa.19

34La banalità di Eichmann, a parere di Anders, incoraggiata dalle facilitazioni tecniche e burocratiche, non assolve alcuna sua colpa. La responsabilità morale non può venire a mancare perché si è sottomessi a ordini o perché l’azione compiuta rappresenta solo una piccola parte di un quadro più grande. “Essere senza macchia nella vita privata non è poi così difficile: il costume surroga largamente la coscienza” (Anders & Eatherly 2016, 186) e caratteristica di ogni sistema totalitario è la deresponsabilizzazione dei suoi componenti. Pertanto la responsabilità maggiore deriva dalla partecipazione ad azioni collettive, le uniche in grado di generare catastrofi su larga scala. La coscienza dovrebbe consigliare: “Anche ciò che mi sono limitato a eseguire, è stato fatto da me; la mia responsabilità non riguarda solo i miei atti individuali, ma tutti quelli a cui ho preso parte;” (Anders & Eatherly 2016, 186). Ed è questa la voce che, secondo Anders, ha permesso a Claude Eatherly di rappresentare la grande antitesi di Eichmann.

Il destino del pilota di Hiroshima

35Claude Robert Eatherly iniziò come studente modello, il “clean cut boy” che “passando dall’istituto magistrale texano alla caserma dell’Air Force, poteva ancora credere che la libertà e l’umanità si potessero difendere con la forza delle armi” (Anders & Eatherly 2016, 11). Il 6 agosto 1945 Eatherly pilotò lo Straight Flush in qualità di meteorologo con l’incarico di valutare se le condizioni fossero favorevoli ad un attacco. Il giovane stesso raccontò che l’obbiettivo fosse un ponte di collegamento tra il quartiere militare e Hiroshima, ma quando diede il “via”, per un errore tecnico, la bomba cadde invece sulla città. Probabilmente non si potevano conoscere a priori gli esiti di quel nuovo strumento di morte, nondimeno essi scossero la vita del giovane. Nel 1943 egli ebbe già mostrato una certa sensibilità agli effetti della guerra: tornato come veterano dal Pacifico, si dovette rivolgere a una clinica di New York a causa di un esaurimento. Tutto ciò fu considerato normale e così anche dopo l’attacco su Hiroshima. Robert Jungk ricorda che inizialmente Eatherly ricevette il sostegno dei suoi concittadini: “Il riserbo dell’aviatore non fu interpretato come segno di follia, e neppure di stravaganza” e “Il turbamento sollevato dall’orrore di Hiroshima non era ancora considerato come un sintomo di debolezza, la condanna delle bombe non era ancora sospetta. […] L’opinione pubblica, quasi unanime, esigeva la messa al bando immediata degli ordigni nucleari” (Anders & Eatherly 2016, 12). Eppure Eatherly rimase l’unico militare che in seguito all’attacco non volle essere riconosciuto e celebrato come eroe. Anzi, in una serie di tentativi, più che inefficaci per espiare la propria colpa, egli cercò di farsi riconoscere come delinquente, sentendo di avere compiuto realmente dei gesti criminali, non giustificati a pieno dal tempo di guerra. Cominciò anche ad inviare lettere o buste di una banconota in Giappone per “scusarsi e accusarsi”. Nel 1950 tentò il suicidio20 ma venne ritro|vato ancora in vita e dopo un breve internamento in ospedale fu rilasciato. Allora decise di farsi ricoverare, senza risultati, nell’ospedale militare di Waco. Ancora, provò a trovare rifugio nella stanchezza fisica, che cercò di guadagnare attraverso un lavoro manuale nei campi petroliferi. Nel 1953 indirizzò un assegno falsificato agli orfani di Hiroshima senza però attirare attenzione alcuna, mentre a Dallas simulò una rapina innocua. L’unica risposta che ricevette fu il ricovero in ospedale. Altri quattro mesi a Waco, altri sei mesi di lavoro normale, altro tentativo di suicidio. Si ripresentò a Waco: “I suoi rimorsi di coscienza sono liquidati come sintomi morbosi, la sua sensibilità, che lo distingue da suoi concittadini che vivono senza darsi troppi pensieri, è interpretata come “assenza di sentimenti”, e quanto alle idee fisse, si cercherà subito di levargliele di testa con fortissime dosi di insulina” (Anders & Eatherly 2016, 16). Anche questa cura fallì e, una volta perso anche l’appoggio della famiglia, dedicò la propria vita alla propaganda per il disarmo nucleare. Gli venne tuttavia negato il riconoscimento del vero crimine:

fra i vani gesti di rivolta di un bandito dilettante, che assalta cassieri senza derubarli, scardina porte degli uffici postali senza toccare un soldo, e i tentativi di guarigione di un malato a cui non servono psicoterapie e tranquillanti, perché, moralmente più sano del suo ambiente, non può adattarsi alla società malata in cui ritorna ogni volta, avendo perduto per sempre […] quel «carapace» psichico che permette ai suoi contemporanei «normali» di sistemarsi con relativa comodità tra Auschwitz, Hiroshima e la minaccia di nuovi, spaventosi crimini di guerra. (Anders & Eatherly 2016, 16-17)

36Il 3 giugno 1959 Anders, letta la notizia su Eatherly in una rivista americana, inviò al giovane la prima di una lunga serie di lettere da Vienna.

Il carteggio con Günther Anders

37Già nella prima lettera Anders interpreta i gesti disperati del pilota con la nuova forma di colpevolezza venutasi a creare all’interno del mondo tecnicizzato21.

Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere – oggi o domani – ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi tutti. È per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore. […] E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo mondo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in quest’epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, così anche noi non abbiamo scelto quest’epoca infausta. […] i Suoi medici […] si limitano a criticare, invece dell’azione stessa (o dello «stato del mondo» che l’ha resa possibile), la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di castigo una «malattia» (Anders & Eatherly 2016, 25-27).

38Il giovane decise di instaurare un carteggio durevole basato sull’atmosfera di reciproca fiducia e comprensione offertagli dal filosofo. Si venne a scoprire già dalla prima lettera la ricerca di Eatherly di una propria filosofia, di un adeguato comportamento morale e la sua predisposizione a mettere in dubbio i valori preconfezionati dalle istituzioni.

sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni. In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta. Ma oggi è relativamente chiaro che la nostra epoca non è di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali […] Nessuna di queste istituzioni è oggi in grado di impartire consigli morali infallibili, e perciò bisogna mettere in discussione la loro pretesa di impartirli. (Anders & Eatherly 2016, 32)

39Ha inizio così la formazione di Claude: Anders inviò al giovane i Co|mandamenti dell’era atomica, in cui è racchiusa una sintesi dell’analisi andersiana della tecnica. Il filosofo cercò di indirizzare il giovane Clau|de al migliore approccio con le sue colpe e le sue vittime. Nell’agosto del 1959 Claude prese contatto con alcuni sopravvissuti a Hiroshima, volendo condividere il loro dolore e diffondere un no more Hiroshima globale. Nei tre anni a seguire, Eatherly condivise con Anders gli alti e bassi della sua vita, la fama, spesso fallace, che egli ebbe guadagnato dopo aver dato voce alla lotta al disarmo nucleare, la frustrazione in seguito alla continua posticipazione della sua uscita dalla clinica di Waco e la difficoltà di trovare comprensione in altri fuori dal filosofo al di là dell’oceano. Il pilota, col proseguire della corrispondenza, diede atto di aver trovato una nuova forza di reazione alla sua condizione; cercò di affrontare l’internamento e i lunghi e spesso inutili processi di riabilitazione con rinnovata calma e fermezza d’animo. Nel gennaio 1961 si tenne un’udienza per decidere del futuro di Eatherly, il quale dimostrò una “straordinaria presenza di spirito”, humor, arguzia e un perfetto autocontrollo.22 I giurati si trovarono incapaci di identificare Eatherly col malato di mente che i medici tanto volevano dimostrare. Nonostante ciò i cosiddetti periti ebbero la meglio sui giudici ed il pilota venne privato della propria libertà e fu internato nel reparto riservato ai “pazzi dichiarati e violenti”, trovandosi così escluso dai “contatti più normali”23; scelse allora di conquistarsela con le proprie mani e fuggì dall’ospedale. Anders non smetterà mai di dare fiducia al giovane anche in seguito agli sforzi disperati, e forse necessari, di evasione. Il carteggio pubblicato in prossimità della fuga trova così termine.

La prospettiva di Anders

40Anders vide in Eatherly un punto di forza per contrastare la deresponsabilizzazione propria del mondo tecnico, la quale è funzione di garanzia per le azioni omicide dei potenti24 come dei piccoli impiegati smaniosi di gloria. Il carteggio trovò un’attenzione e una diffusione globale25 ma non mancarono le critiche, molte delle quali si appoggiarono alla già confusa situazione, facilmente distorta dai mass media con l’appoggio dei servizi militari. Eppure, l’importanza assunta dal pilota risiede proprio nella sua indiretta responsabilità: “l’eccezionalità della sua esperienza è costituita proprio nella comprensione (anche se, necessariamente, inutile) e nel pentimento per qualcosa a cui egli aveva soltanto collaborato; nel fatto che egli si fosse “fatto carico” moralmente ed emozionalmente di un’azione che in realtà non ebbe “intrapreso””(Anders 1990, 80). Nella trentaseiesima lettera a Günther Anders, Eatherly disse esplicitamente:

Il nostro scopo è di por fine al riarmo atomico, mettere al bando le armi nucleari e costituire un governo mondiale in grado di salvaguardare la pace: un governo che comprenda in sé gli stati piccoli e deboli non meno di quelli grandi e forti; e adoperare i fondi che si spendono in armamenti per l’educazione, la salute e il benessere dei popoli poveri. […] Ciò che importa è che il mio nome sia diventato molto più noto di quello degli uomini che hanno effettivamente lanciato la bomba. Il mio segnale di via libera deve diventare il mezzo che mostra la mia colpa. Ciò che bisogna far capire alle masse di tutto il mondo, è che l’effetto demoralizzante della bomba non è meno totale del suo effetto fisico e della sua forza distruttiva. (Anders & Eatherly 2016, 126).

41Gli altri boys dell’equipaggio di Eatherly si dichiararono sempre pronti a rifare la stessa cosa quando necessario, schivando qualunque forma di disturbo o pentimento. Essi affrontarono la stessa esperienza di Eatherly ma evitarono qualsiasi presa di coscienza dei propri gesti e delle conseguenze. “Claude, invece, possedeva un’auto|nomia morale sufficiente per respingere da sé con disprezzo quell’evasione. […] tutta la sua vita non è consistita in altro che nel vano tentativo di comprendere ciò che egli chiama la sua “colpa”, e di farla capire anche agli altri” (Anders & Eatherly 2016, 115).

42Per capire pienamente il contrasto con la figura di Eichmann, che Anders non smette mai di rilevare e far notare, sono preziose la lettera che il filosofo indirizzò al presidente Kennedy e la lettera allo stesso Claude, entrambe scritte nel periodo in cui veniva seguito a livello mondiale il processo ad Eichmann. Eatherly è l’”uomo nell’età tecnica” che viene distrutto nell’opera a cui prende parte come distruttore. La sua crisi è la risposta più sana che si possa dare, poiché garantisce la sopravvivenza della sensibilità morale e la responsabilità individuale all’interno di una comunità autoindulgente.26 L’espansione totalitaria della macchina, il suo creare una rete di apparati che sezionano e suddividono il lavoro ed i lavoratori, è il pretesto ideale sotto cui spogliarsi di ogni responsabilità, ma “se scarichiamo ogni responsabilità sull’apparato […] liquidiamo ipso facto la libertà della decisione morale e la libertà della coscienza, e facciamo dell’aggettivo “libero”, nell’espressione “mondo libero”, l’asserzione più vuota ed ipocrita” (Anders & Eatherly 2016, 185). Eatherly non permise tutto ciò, egli fallì umanamente nel comprendere, a priori come a posteriori, gli effetti del suo marginale contributo ad un complesso ben più esteso e fece di quel fallimento una ragione ed una causa. Per questo motivo dinnanzi alle parole pronunciate da Servatius, difensore di Eichmann, secondo cui: “Un uomo che obbediva agli ordini altrui come Eichmann, non può essere considerato responsabile più di quanto possa esserlo l’uomo che lasciò cadere la bomba su Hiroshima” (Anders & Eatherly 2016, 210), Anders reagisce contrapponendo alla banalità del grigio assassino lo smarrimento del giovane pilota.

No, Eatherly non è il gemello di Eichmann, ma la sua grande e (per noi) consolante antitesi. Non è l’uomo che fa del meccanismo un pretesto e una giustificazione della mancanza di coscienza, ma l’uomo che scruta il meccanismo come paurosa minaccia alla coscienza. (Anders & Eatherly 2016, 185)

Conclusione

43Si è voluto, in questa breve ricerca, dare peso alla morale che nasce come sensibilità, ovvero come risposta emotiva nel confronto con l’incoercibile potere della tecnica, che risveglia in primis una responsabilità individuale e mette poi a nudo i luoghi comuni e le dissimulate evidenze, che si sottraggono allo sforzo e alla vergogna di prendere atto e posizione.

44Nel mondo tecnologico l’uomo è ormai caduto dal ruolo di homo faber. In seguito alla “creazione prometeica” della tecnica, egli, come esistenza organica, rimane solamente un’ombra, o meglio, un’appendice fastidiosa. La tecnica sembra essersi liberata delle mani obsolete del suo creatore e aver guadagnato ciò che all’uomo non è possibile: l’immortalità. L’uomo invece ha un’esistenza unica, ancora difficile da replicare con precisione, sempre che ci sia bisogno di replicare un essere talmente fragile e faulty, perciò rimpiange di non poter essere sostituito come una delle tante gomme di un’automobile. Non solo l’uomo è stato superato dalla tecnologia, egli ne è diventato servo e cerca di inseguire ciecamente il percorso tracciato dalla sua creazione, senza capirne la futura, anche prossima, direzione. Infatti, la sua forza immaginativa non riesce più a stare dietro alla esponenziale capacità di produzione. Questa mancanza viene ulteriormente aggravata dalla continua frammentazione dei processi lavorativi: è facile perdere di vista il risultato totale di un sistema in cui si è un bullone tra i tanti. Rispetto all’incedere tecnologico, l’essere umano non solo non tiene più il passo organicamente, ma anche moralmente. “I milioni di lavoratori del mondo attuale ricevono ogni giorno l’assicurazione che gli effetti delle loro azioni non li riguardano” (Anders & Eatherly 2016, 229). La responsabilità non può essere una questione di vita privata e non può nemmeno essere considerata solamente entro l’ambito delle azioni individuali, poiché essa riguarda tutti i concittadini e gli uomini, che hanno reso il mondo una “barca” vacillante. Se l’essere ciechi è una comodità offerta dal sistema tecnologico odierno, essa non va confusa con la libertà conquistata dall’uomo contemporaneo.

45La malvagità, esemplificata perfettamente da Eichmann, significa trascurare le positive opportunità morali che possono offrirsi, anche nel fallimento. Malvagità è noncuranza come risposta a eventi difficilmente comprensibili. Il dover dubitare dell’intuitività della propria coscienza, dal momento che essa è nata in grembo al mondo tecnico, che non la smette mai di plasmare, può farci sentire come dinnanzi ad un’aporia. Nessuno vorrebbe rivivere il tormentato destino dell’uomo passato alla storia come il pilota di Hiroshima; nondimeno sembra che una sorte simile possa ricadere, in quest’epoca difficile, sulle spalle di chiunque. La speranza la si può trovare proprio in quella parte dell’uomo originariamente antiquata, che potrà sembrare d’impaccio ad un primo sguardo, ma che preserverà, nella rigidità, la libertà di discernere. Fino a quando gli eventi mostruosi esisteranno come un “non ancora”, sarà compito di ognuno trasformarli in un “mai più”.

    Notes

  • 1 Evidente riferimento ai titoli delle opere andersiane: Uomo senza mondo (Anders 1991) e Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza (Anders 2008). Sull’idea di una condizione umana sfigurata e il suo rapportarsi all’animale cfr. (Heidegger 1999).
  • 2 Si innesca qui un importante dibattito su quanto la tecnologia possa essere considerata parte dell’uomo, quindi per un verso naturale, o creazione che supera il creatore e il suo mondo, quindi artificiale. Mi appoggio al saggio di Micaela Latini, Uomini senza mondo. Günther Anders tra antropologia filosofica e letteratura (Latini 2011, 3).
  • 3 Sempre nel 1964 viene pubblicato La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Arendt 1964). Entrambe le riflessioni vennero fatte in seguito al controverso processo del 1961 ad Eichmann, tenutosi in Israele.
  • 4 “Nella storia, a parte forse per i pogrom dei tempi antichi, non si era mai verificata una simile grande distanza tra i presunti motivi di vendetta e le reali vittime della vendetta.” (Anders 1995, 96).
  • 5 Questo numero ha spesso oscillato, dando prova di quanto poco importi un milione in più o in meno per la facoltà umana di rappresentarselo concretamente (Cfr. Arendt 2016).
  • 6 Prezioso il saggio di Babette Babich, Angels, the Space of Time, and Apocalyptic Blindness: On Günther Anders’ Endzeit-Endtime (Babich 2013).
  • 7 Le seguenti riflessioni traggono spunto dal saggio di M. P. Paternò, Il coraggio di avere paura: Günther Anders e l’età della tecnica (Paterno 2015). La filosofa vede in Anders una valutazione positiva del ruolo della paura, dalla quale può nascere e trarre forza la libertà. Interessante anche il confronto del concetto di angoscia andersiano con quello freudiano ed heideggeriano, che Anders conosce molto bene. Viene ricordato, infatti, che anche in Essere e Tempo l’angoscia gioca un ruolo positivo: essa “apre al Daisen la possibilità di un’esistenza autentica, rivelandogli il suo ‘essere-per-la-morte’”. Tuttavia l’angoscia andersiana si distanzia da quella del suo maestro, diventando piuttosto “orientata all’azione”.
  • 8 Sulla povertà della morale andersiana cfr. Velotti (2008).
  • 9 Da qui prende avvio la critica di Anders a una filosofia accademica e in generale a chiunque tenti di racchiudere, sotto un campo di competenza specifica, una questione che riguarda ogni essere umano. In tal modo la responsabilità viene affidata solamente ai pochi “competenti” e la società viene lasciata in una condizione di indifferenza dinnanzi a questioni che la riguardano direttamente. La cosiddetta “filosofia d’occasione” promossa da Anders ripete insistentemente il suo mantra: “siamo tutti nella stessa barca”. E aggiunge: “Abbiamo bisogno di uno stesso regolamento di bordo. I principi si possono discutere una volta raggiunta la riva”.
  • 10 Pier Paolo Portinaro offre un’attenta analisi e critica alle varie soluzioni proposte da Anders in tutto l’arco della sua produzione filosofica, nel volume Il principio disperazione (Portinaro 2003 147-160). Egli traccia una “involuzione pessimistica” di Anders dopo il 1965 e critica l’approdo senile al pacifismo violento, in seguito al fallimento degli “esercizi di estensione morale”, proposti nel primo volume di L’uomo è antiquato.
  • 11 Interessante la distribuzione di responsabilità attuata da Anders riguardo alla bomba atomica. Questo strumento “pesa sui tetti” di ciascuno e richiede attenzione e impegno a tutti gli uomini che d’ora in poi devono “vivere con la bomba”. Allo stesso tempo Anders redime gli inventori di questo atroce strumento, avendo essi contribuito a sviluppare piccoli particolari di essa; se si volesse condannare ogni azione che ha portato alla creazione della bomba, si arriverebbe a dover incolpare Einstein per aver scoperto la stretta relazione tra energia e massa. Meno innocenti sono invece i potenti, che usano quest’arma sotto il pretesto della difesa dal totalitarismo. La minaccia del totalitarismo, per Anders, non è niente in confronto alla minaccia dell’estinzione umana, troppo spesso dimenticata e sottovalutata. (Cfr. Neiman 2015).
  • 12 Nel relativo diario Anders descrive l’esito povero della conferenza: “Non sono abbastanza modesto per vedere il significato di una conferenza nel suo “valore simbolico” anziché nei suoi risultati concreti”.
  • 13 Si ricordano anche i Comandamenti dell’era atomica, pubblicati inizialmente in “Frankfurter Allgemeine Zeitung” il 13 luglio 1957 e ripubblicati come allegato alla quarta lettera del carteggio col pilota C. Eatherly (Anders & Eatherly 1961).
  • 14 Come ricorda P.P. Portinaro: “L’approdo della diagnosi andersiana finirà così per restare sospeso tra misticismo e violenza” (Portinaro 2003, 155).
  • 15 Anders condanna l’universale colpevolezza, di tradizione cristiana, diffusasi dopo Hiroshima e presente anche tra i partecipanti della conferenza a cui prende parte a Tokio, il Fourth World Conference against A and H Bombs and for Disarmament, dal momento che pensare tutti colpevoli significa non incolpare nessuno in particolare e ciò porta pertanto ad annullare ogni colpa. Anders ricorda che ciò che prova non è colpa bensì vergogna. Egli dichiara con ferma certezza che non avrebbe mai potuto commettere “un simile disastro atomico”. La vergona che prova è dovuta al fatto di condividere la condizione di essere “uomo” con chi compie queste stragi.
  • 16 Per una dettagliata ricostruzione storica cfr. Arendt (2001).
  • 17 Nella descrizione fatta da Hannah Arendt di questo personaggio, risaltano sorprendenti particolarità, come l’eccessiva millanteria, l’incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri e l’impossibilità di esprimersi senza far uso di clichés. “Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano” (Arendt 2001, 57).
  • 18 “[…] lui non può essere annoverato tra quei milioni di lavoratori che sono condannati a restare nella loro specifica mansione e che a causa della mediazione dei processi dell’apparato di cui fanno parte vengono veramente derubati della possibilità di immaginarsi gli ultimi e orribili effetti di quell’apparato” (Anders 1995, 36). Per Arendt, invece, ciò che aveva permesso l’attuarsi di tali mostruosità fu la potenza della propaganda nazista: “Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo […] e perciò gravoso” (Arendt 2001, 113).
  • 19 G. Anders, Noi figli di Eichmann, cit., p. 36. Da notare che queste considerazioni sembrano in sintonia con il pensiero della Arendt quando la pensatrice dice che: “il grado di responsabilità cresce quanto più ci si allontana dall’uomo che usa con le sue mani il fatale strumento” (Arendt 2001, 254).
  • 20 R. Jungk ricorda che il 1950 era “l’anno in cui il presidente Truman annunciò che l’America avrebbe costruito un’arma atomica ancora più potente, la bomba a idrogeno” (Anders & Eatherly 2016, 14).
  • 21 “diedi retta alle insistenze di mia moglie, anzi di più: non sopportai più di non intervenire, misi da parte il mio manoscritto filosofico e scrissi (naturalmente convinto di scrivere nel vuoto, così come nei decenni dell’esilio) ad un certo Claude Eatherly, c/o Veterans Hospital, ecc. Come mai questa mia prima lettera abbia davvero raggiunto il suo destinatario – una lettera che la censura dell’ospedale non avrebbe dovuto trascurare […] e come mai anche le lettere successive […] venissero lasciate passare, questo mi è ancor oggi incomprensibile. […] Posso solo supporre questo: l‘angelo salvatore si chiamava: menefreghismo” (Anders 1990, 78-79).
  • 22 Questi dettagli vengono raccontati ad Anders dal giornalista Ray Bell, presente all’udienza per conto di un giornale francese e interessato al caso Eatherly, cfr. Lettere 59 e 61 (Anders & Eatherly 2016, 193-196). Il giornalista, dopo aver assistito al processo, pubblicò un resoconto sul quotidiano “Waco News Tribune”, concludendo: “In realtà, molto probabilmente, era la persona più intelligente in tutta l’aula del tribunale.” (Anders & Eatherly 2016, 18). Ma la versione che prese maggiormente piede in America fu quella antitetica di un collega di Bell, che venne pubblicata dallo stesso giornale. Si vuole così sottolineare l’aria polemica che impedì la chiara comprensione di questa triste figura.
  • 23 R. Jungk racconta: “Proprio ora che egli non era più soltanto un ribelle sentimentale e un po’ confuso, ma un uomo che aveva cominciato a riflettere e che voleva mettere il resto della sua vita al servizio dell’opera di chiarimento e di persuasione sui pericoli del riarmo atomico, lo fecero riprendere come un detenuto evaso e lo condannarono in un processo a cui non partecipava un solo perito indipendente, ma solo psichiatri nominati dalle autorità militari ad una reclusione rigorosa nella clinica di Waco” (Anders & Eatherly 2016, 18).
  • 24 “E questo metodo è esemplificato, meglio ancora, dal presidente che ha dato il “via” a Lei come Lei lo ha dato al pilota dell’apparecchio bombardiere […] Ma egli ha omesso di fare ciò che Lei ha fatto. Tant’è che alcuni anni fa, rovesciando ingenuamente ogni morale […] ha dichiarato, in un’intervista dichiarata al pubblico, di non sentire i minimi ‘pangs of conscience’” (Anders & Eatherly 2016, 29).
  • 25 Con una certa fierezza Anders ricorda, vent’anni dopo la nascita del carteggio: “senza la figura di Eatherly si sarebbe giunti difficilmente, per esempio in Italia, a un movimento antinucleare – il che provava ( e prova ancora oggi, giacché l’ ”utilizzazione” della corrispondenza sta ricominciando), che essa non è stata concepita semplicemente come un pezzetto più o meno interessante di “letteratura per corrispondenza”, bensì come un oggetto di tutt’altro genere; cioè come il simbolo di un’epoca, il simbolo della problematica con la quale noi, nell’era della terza rivoluzione industriale, dobbiamo confrontarci globalmente.” (Anders 1990, 89-90).
  • 26 Il filosofo Georg Geiger offre un’interessante critica alla prospettiva di Anders sulla responsabilità. Sembra che manchi in Anders un’attenta considerazione della corresponsabilità collettiva e sovrabbondi invece l’analisi fenomenologico – psicologica dei singoli soggetti. È tutt’altro vero che l’indagine di Anders rifiuti la responsabilità politico – razionale e sembra nascere e prosperare attorno a un’indignazione personale. Ma egli non manca certo di far notare l’importanza di questa base emotiva da cui prende vita la morale stessa (Cfr Geiger 1991).

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Published in:

Grigenti Fabio, Aurora Simone (2021) Fenomenologia e tecnica. Genève-Lausanne, sdvig press.

Pages: 115-145

Full citation:

Lazar Andrada Ioana (2021) „La tecnica in Günther Anders“, In: F. Grigenti & S. Aurora (eds.), Fenomenologia e tecnica, Genève-Lausanne, sdvig press, 115–145.