Central and East European
Society for Phenomenology

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Ontotecnica

essere e uomo di fronte alla tecnica

Giulio Amore

pp. 45-79

Lines

1 | Introduzione: Heidegger e la “questione della tecnica

1La domanda “che cos’è la tecnica?” è al centro di quella peculiare indagine filosofica definita ontologia della tecnica, ovvero l’inter|rogare ontologico che mira ad afferrare l’essenza stessa della tecnica. In questa direzione, la conferenza tenuta da Martin Heidegger nel 1953, “Die Frage nach der Technik”, ovvero, come traduce Gianni Vattimo, La questione della tecnica (Heidegger 2016), risulta essere un testo imprescindibile da cui partire. Heidegger imposta così la sua interrogazione:

In queste pagine, noi poniamo la domanda circa la tecnica. […] Noi poniamo la domanda circa la tecnica e intendiamo con ciò procurarci un rapporto libero con essa. Tale rapporto è libero quando apre il nostro esserci all’essenza della tecnica. (Heidegger 2016, 5)

2Domandare intorno alla tecnica significa aprirsi all’essenza della tecnica, porre quella sopracitata questione fondamentale, ossia quella circa l’essenza della tecnica.

3Poche righe dopo, Heidegger precisa: “Secondo un’antica dottrina, l’essenza di qualcosa è il che cosa una certa cosa è” (Heidegger 2016, 5).

4Dalle prime righe del saggio heideggeriano si può evincere come la stessa domanda sia già stata affrontata dal filosofo di Meßkirch; risulterà dunque fruttuoso analizzare la sua prospettiva.

5Tornando al testo, Heidegger precisa sin da subito una cosa molto importante, che ripeterà più volte lungo tutto il saggio: “L’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico” (Heidegger 2016, 5).

6È importantissimo notare come il soggetto della frase non sia la tecnica, ma l’essenza della tecnica. Lo è perché la domanda “che cos’è la tecnica?”, di fatto, non sta chiedendo semplicemente qualcosa di vago circa la tecnica, anzi, al contrario, sta interrogando l’essenza stessa della tecnica. Quando Heidegger dice che l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico, intende rimarcare esattamente questo aspetto: abbiamo a che fare con l’essenza di qualcosa, non con il semplice “qualcosa”.

7Il saggio, dopo questo inizio già denso di significato, parte da due semplici constatazioni: la prima è che “la tecnica è un mezzo in vista dei fini” (Heidegger 2016, 5), la seconda che “la tecnica è un’attività dell’uomo” (Heidegger 2016, 5). Entrambe sono connesse, dice Heidegger, dal momento che proporsi degli scopi e fornirsi dei mezzi atti a raggiungerli sono attività umane. In breve, la tecnica è quell’insieme di dispositivi che permettono la soddisfazione dei bisogni e dei fini precedentemente prefissatisi. In questo caso si parla di tecnica come instrumentum: “La rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e un’attività dell’uomo, può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica” (Heidegger 2016, 5).

8Il fatto che Heidegger precisi come questa sia la definizione strumentale e antropologica suggerisce come egli la consideri sì esatta, ma non completa. Heidegger, infatti, commenta così questa definizione preliminare a cui è giunto precedentemente: “Chi vorrà negare che sia esatta? Essa si conforma chiaramente a ciò che si ha davanti agli occhi quando si parla di tecnica” (Heidegger 2016, 6).

9Perché questa definizione non può restituire l’essenza della tecnica? Perché avere davanti agli occhi la tecnica come instrumentum non è avere davanti agli occhi l’essenza della tecnica? Heidegger, rispondendo a queste domande implicite, inizia la sua argomentazione, che qui verrà ripercorsa nei suoi tratti salienti. Per quanto concerne questi interrogativi, c’è un passo, sempre all’interno di questo testo, che riguarda in generale il rapporto tra l’esatto ed il vero, tra l’esatto ed il disvelamento:

Ciò che è esatto constata sempre qualcosa di giusto a proposito di ciò che gli sta di fronte. La constatazione, tuttavia, per essere esatta non deve necessariamente svelare ciò che le sta di fronte nella sua essenza. Ora, solo dove un tale svelamento si dà accade il vero. Perciò, quello che è puramente esatto non è ancora senz’altro il vero. Solo quest’ultimo ci conduce in un rapporto libero con quello che ci concerne a partire dalla sua essenza. L’esatta definizione strumentale della tecnica non ci mostra ancora, perciò, la sua essenza. (Heidegger 2016, 6)

10Se la tecnica è strumento, allora dobbiamo chiederci cosa sia la strumentalità, ossia quale sia l’essenza dell’esser-strumento. Heideg|ger richiama a sé le quattro cause: materialis, formalis, finalis, efficiens (Heidegger 2016, 6). Queste quattro cause sono interpretate come “i modi, tra loro connessi, dell’esser-responsabile” (Heidegger 2016, 7). Cosa significhi esser-responsabile, viene precisato poco più avanti:

I quattro modi dell’esser-responsabile portano qualcosa all’apparire. Fanno sì che questa cosa si avanzi nella presenza. Essi lo liberano per questo suo avanzare, cioè per il suo compiuto avvento. L’esser-responsabile ha il carattere fondamentale di questo lasciar-avanzare nell’avvento. Nel senso di questo lasciar-avanzare l’esser-responsabile è il far-avvenire. (Heidegger 2016, 8)

11Le quattro cause sono dunque la ragione per cui qualcosa si mostra nell’apparire, si dis-vela. La strumentalità quindi è ciò che permette l’avanzare di qualcosa nella presenza. Esser-strumento significa essere qualcosa che è responsabile del far-avvenire un’altra cosa. In altre parole, l’esser-strumento implica la possibilità che si possa lasciar avanzare qualcosa nella presenza, essendo responsabili di quell’avanzare. Heidegger dice: “essi fanno avvenire nella presenza ciò che ancora non è presente” (Heidegger 2016, 8). L’essere-strumento è l’essere responsabili del disvelamento di un qualcosa.

12Per chiarire ulteriormente, Heidegger cita il Simposio di Platone, proponendo una traduzione che accoglie direttamente ciò a cui si è precedentemente arrivati: “Ogni far-avvenire di ciò che – qualunque cosa sia – dalla non-presenza passa e si avanza nella presenza è ποίησις, pro-duzione” (Heidegger 2016, 9).

13Pro-duzione, letteralmente: conduzione innanzi, condurre qualcosa ponendolo dinanzi. Ma se la strumentalità, con i suoi quattro modi, ossia le quattro cause, convoca il far-avvenire, e dunque la pro-duzione (che è il condurre-avanti, il far-avvenire dalla non-presenza alla presenza), ed essa è responsabile di questo far-avvenire e, dunque, di questa pro-duzione, allora:

I modi del far-avvenire, le quattro cause, giocano quindi all’interno della pro-duzione. […] Che cos’è la pro-duzione, nella quale gioca il quadruplice modo del far avvenire? Il far-avvenire concerne la presenza di ciò che di volta in volta viene all’apparire nella pro-duzione. La produzione conduce fuori del nascondimento nella disvelatezza. (Heidegger 2016, 9)

14La strumentalità porta alla disvelatezza. Essere-strumento significa essere-responsabili dell’atto del disvelarsi di una cosa. L’essenza della tecnica, forse, inizia a rivelarsi, come suggerisce Heidegger: “Che ha da fare l’essenza della tecnica con il disvelamento? Rispondiamo: tutto. Giacché nel disvelamento si fonda ogni pro-duzione” (Heidegger 2016, 9).

15La prima parte dell’argomentazione heideggeriana si chiude qui: la tecnica, essendo-strumento, non è semplicemente un mezzo, è un modo stesso del disvelamento, dal momento che l’essere-strumento è l’essere-responsabile del disvelamento (ossia del far-avvenire alla presenza, della pro-duzione) di qualcosa.

2 | L’imposizione tecnica secondo Heidegger

16Heidegger distingue la tecnica antica da quella moderna; la prima, infatti, pro-ducendo, conducendo avanti il pro-dotto, lo accompagna nel processo di disvelamento, la seconda, quella moderna, obbliga la cosa a presentarsi. La differenza è qualitativa: mentre la poiesis antica faceva-avvenire il disvelamento della cosa pro-dotta, la tecnica moderna richiede il disvelamento pro-vocandolo. Da un lato abbiamo un pro-durre, dall’altro una pro-vocazione.

17Heidegger definisce così la tecnica moderna attraverso tre termini chiave: Herausfordern, Bestand e Gestell.

18Vedremo brevemente come Heidegger impieghi questi termini nel tentativo di giungere all’essenza della tecnica che, come precedentemente anticipato, ha a che fare con il disvelamento stesso, con l’aletheia stessa. “Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern)” (Heidegger 2016, 11).

19La tecnica, attraverso il suo dispiegarsi, pro-voca, obbligando la cosa a manifestarsi. In particolare, Heidegger parla di come essa provochi la natura a fornire energia, utilizzando come immagine quella dell’escavatrice che pro-vocando il suolo, lo obbliga a manifestarsi come riserva di minerali. Questo obbligo è interpretato da Heidegger come una richiesta ineludibile, una chiamata senza possibilità di sottrarsi da essa. Egli infatti parla di richiedere pro-vocante. L’immagine dell’escavatrice ora è quanto mai utile per figurarci nella mente ciò che Heidegger vuole dire. Quando la pala di acciaio pianta i propri denti sul terreno, essa pro-vocandolo (chiamandolo a manifestarsi innanzi) gli richiede qualcosa, in questo caso di manifestare una fonte di energia come il carbone, per esempio.

Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello Stellen, del richiedere nel senso della pro-vocazione. Questa provocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. (Heidegger 2016, 12)

20Heidegger non sta descrivendo il funzionamento di un macchinario industriale, sta parlando di disvelamento, sta parlando dell’essere stesso di ciò che viene toccato dalla tecnica. La tecnica richiede provocando l’essere stesso della cosa, per poi successivamente impiegarlo nella maniera in cui l’ha richiesto (Cfr. Galimberti 2017, 395)1. È fondamentale questo passaggio, così come cruciale è il termine che, poche righe sotto a quelle appena citate, Heidegger introduce, ossia: Bestand.

Quale tipo di disvelatezza è appropriata a ciò che ha luogo mediante il richiedere pro-vocante? Ciò che così ha luogo è dovunque richiesto di restare a posto, nel suo posto, e in modo siffatto da poter essere esso stesso impiegato (Bestellbar) per un ulteriore impiego (Bestellung). Ciò che così è impiegato ha una sua propria posizione (Stand). La indicheremo con il termine Bestand, fondo. (Heidegger 2016, 12)

21Ecco il pro-dotto immagazzinato dalla tecnica moderna, un pro-dotto pronto (ossia che sta sempre al posto che gli è stato assegnato) per essere impiegato nella modalità in cui lo si è richiesto pro-vocandolo. L’essere così disvelato è un essere pro-vocato ed obbligato a presentarsi, nella forma del fondo, ossia nella forma di “tutto ciò che ha rapporto al disvelamento pro-vocante” (Heidegger 2016, 12), ovvero alla tecnica.

22Prima di introdurre il terzo termine-chiave, Gestell, è necessario soffermarsi sulle altre due parole utilizzate da Heidegger, quindi Herausfordern e l’appena discussa Bestand.

23La tecnica, dunque, pro-voca (Herausfordern) l’essere della cosa e richiede la stessa sotto la forma di fondo (Bestand). Detto in altri termini, la tecnica è quella modalità del disvelamento che obbliga l’essere a presentarsi sotto forma di qualcosa che “ha rapporto al disvelamento pro-vocante”. Essere in rapporto con il disvelamento pro-vocante significa dire: essere in rapporto con la tecnica. In codesto rapporto ciò che è in rapporto con la tecnica la subisce? Sì, se abbracciamo la prospettiva heideggeriana; egli, infatti, usa più volte espressioni come: messo-allo-scoperto, richiesto, impiegato, pro-vocato. Oltre ad essere tutti termini che implicano una passività del sostantivo a cui essi sono collegati, sono anche intrinsecamente passivi. Venir messi allo scoperto, essere richiesti, impiegati, indicano tutti una sorta di passivo subire la richiesta. L’essere che va a contatto con la tecnica è un essere che viene messo allo scoperto dalla tecnica, viene richiesto dalla tecnica, viene impiegato da essa, viene pro-vocato dalla tecnica. L’essere che viene manifestato (non si-manifesta) dal richiedere pro-vocante è un essere che subisce la tecnica.

24Il Bestand, quindi, è qualcosa che subisce la tecnica. Quando qualcosa subisce la tecnica, “non ci sta più di fronte come oggetto” (Heidegger 2016, 12), esso è un Bestand, non un semplice oggetto. È fondamentale capire di fronte a cosa ci troviamo: l’essere che entra in contatto con la tecnica è un essere che subisce la tecnica e che non può essere-se-stesso senza la tecnica. È un essere ormai tecnicizzato. Ma l’essere che subisce la tecnica non è semplicemente, come abbiamo appena detto, tecnicizzato, è un essere che necessita la tecnica per essere-ciò-che-è, ossia un essere-tecnicizzato. Come rendere, con una parola, la pro-vocazione operata dalla tecnica che richiede di essere impiegati in quanto Bestand, ossia in quanto essere che ha subito la tecnica? L’espressione che qui vorrei introdurre è: protocollo.

3 | L’interpretazione protocollare

25Il protocollo è una serie di condizioni senza le quali non si avvera una determinata cosa: se non inserisco il vaso appena modellato nel forno, non otterrò mai un vaso vero e proprio. Si è sempre interpretata la parola protocollo attribuendole un significato esclusivamente applicativo. Ma protocollato è l’essere che è in rapporto con il disvelamento pro-vocante. È protocollato perché la tecnica l’ha richiesto e provocato affinché possa essere impiegato in un determinato modo e non in un altro. Ciò che subisce la tecnica viene protocollato da quest’ultima, la quale gli attribuisce un protocollo, tale che si possa dire: questa cosa è questa, il che non è una mera tautologia. Attraverso il protocollo della tecnica, l’argilla ora è un vaso, e questa non è, chiaramente, una tautologia.

3.1. Bestand: protocollato

26Chiamo protocollato il Bestand, ossia ciò che è stato pro-vocato e richiesto dalla tecnica per essere impiegato in quel determinato modo. Protocollato perché la tecnica incide profondamente nell’essere di quest’ultimo un protocollo, ossia ciò-che-esso-è2. Il vaso è protocollato perché per essere-un-vaso, deve seguire un protocollo. La tecnica ha a che fare col disvelamento poiché ha a che fare con le condizioni ontologiche stesse dell’oggetto appena protocollato. Senza tecnica, cioè senza protocollo, l’oggetto non verrebbe infatti protocollato, dunque potrebbe non-essere-ciò-che-è, e questo (che una cosa non sia ciò che è) è impossibile.

27Il protocollo che convoca la tecnica potremmo chiamarlo protocollo ontologico, poiché coincide con ciò che una cosa è e non può non essere.

3.2. Herausfordern: protocollare

28Se Bestand è il protocollato, herausfodern è protocollare: l’azione che genera un protocollato è il protocollare. Pro-vocare l’essere e richiederlo affinché sia impiegato in un determinato modo è il disvelamento operato dalla tecnica, che ha come conclusione un Bestand, un protocollato. Non solo lo svela come protocollato, ma lo obbliga a presentarsi come tale. L’obbligare l’essere a presentarsi in quanto protocollato è il protocollare. In altre parole, se la richiesta provocante della tecnica obbliga l’essere della cosa a presentarsi in quanto protocollato, e protocollato è l’essere che ha subito la tecnica, il corrispettivo attivo di questa modalità del disvelamento è l’atto stesso della tecnica che, incidendo un protocollo ontologico nell’essere della cosa, protocolla l’essere della cosa. Herausfordern può quindi essere interpretato come l’atto di protocollare.

4 | Ancora sulla questione della tecnica. L’essenza della tecnica: il Gestell

29Torniamo al testo di Heidegger. Avevamo citato tre termini, definendoli fondamentali; due li abbiamo già analizzati, Bestand e herausfordern, proponendo una diversa interpretazione di essi. Il terzo è Ge-stell.

30Di forme del verbo Stellen contenute nel testo di Heidegger se ne possono contare molte, non a caso, attorno a questo verbo, ruota gran parte del messaggio heideggeriano sulla tecnica. La stessa Bestand deriva da Stellen. Quindi, che cosa significa in Heidegger Gestell? A che cosa lo riconduce? Ci risponde direttamente il testo: “Ge-stell, im-posizione (Heidegger 2016, 14)3, indica la riunione di quel richiedere (Stellen) che richiede, cioè pro-voca, l’uomo a disvelare il reale, nel modo dell’impiego, come ‘fondo’” (Heidegger 2016, 15).

31Gestell, dunque, sembra essere il nucleo del testo heideggeriano, tanto che egli stesso afferma: “L’essenza della tecnica moderna si mostra in ciò che chiamiamo im-posizione” (Heidegger 2016, 17).

32Il Gestell sta al centro di tutto perché è la riunione dell’atto dell’herausfordern e del Bestand. È la modalità del disvelamento in cui entra in gioco la tecnica, con il suo protocollare ed i protocollati.

33È un’altra ragione per cui considerare questa parola come la parola chiave di tutto il testo, ma già la perentoria affermazione: “L’essenza della tecnica moderna si mostra in ciò che chiamiamo im-posizione”, sarebbe stata sufficiente per rendere atto di ciò. Gestell, inoltre, introduce l’uomo, definito come “[…] già re-clamato da un modo del disvelamento, che lo pro-voca a rapportarsi alla natura come a un oggetto della ricerca, finché l’oggetto scompare nell’assenza-di-oggetto del “fondo” (Heidegger 2016, 14).

34E ancora:

La tecnica moderna, dunque, intesa come il disvelare impiegante non è un operare puramente umano. Per questo bisogna che prendiamo così come essa si mostra quella pro-vocazione che richiede l’uomo a impiegare (bestellen) il reale come “fondo”. (Heidegger 2016, 14)

35L’uomo, dunque, è anche lui re-clamato dalla tecnica, richiesto e pro-vocato da essa. Ma cosa significa essere richiesto e pro-vocato dalla tecnica? L’abbiamo visto ampliamente: significa esser-impiegato come Bestand, in altre parole, esser-protocollato. Ma qual è il protocollo inciso nell’esser-uomo? L’uomo è impiegato dalla tecnica per esser-applicata, essa richiede che si impieghi il reale come fondo. La tecnica dunque, protocolla l’uomo, affinché esso pro-vochi e impieghi il reale come protocollato. L’uomo è esso stesso un essere protocollato per protocollare.

36Ecco il Gestell, ecco l’im-posizione: la riunione del richiedere provocante, che impiega l’uomo affinché protocolli il reale. Gestell è l’essenza della tecnica, è ciò-che-essa-è, ossia l’imposizione sopracitata. Il Gestell riunisce in sé la richiesta (Stellen), la provocazione (Herausfordern) e l’impiego come fondo (Bestand). Gestell è ciò che la tecnica è e non può non essere.

4.1. Gestell: protocollo

37Gestell è l’im-posizione che la tecnica richiede all’essere della cosa che sta pro-vocando. Che cos’è dunque l’im-posto, che cos’è che richiede la tecnica? Richiede l’essere della cosa come Bestand, dunque come protocollato. Richiede che nel disvelarsi dell’essere della cosa venga inciso qualcosa, che significa: impone che l’essere della cosa si manifesti in quanto subente un protocollo. La tecnica dunque impone un protocollo, impone che l’essere si disveli in quanto protocollato; pro-vocandolo, richiede che l’essere rispetti un protocollo. Ecco l’im-posto: il protocollo. L’imposizione che la tecnica opera è il protocollo. La tecnica protocolla l’essere, imponendogli un protocollo, affinché esso possa venir impiegato in quanto protocollato. La tecnica incide nella costellazione ontologica dell’essere da essa maneggiato ciò-che-esso-è e ciò-che-esso-non-è, ossia, un protocollo.

38Se torniamo alla definizione iniziale di protocollo tutto risulterà più chiaro: il protocollo è una serie di condizioni senza le quali non si avvera una determinata cosa. Ora, nel caso del vaso, se non lo si metterà nel forno, esso non si manifesterà in quanto vaso: non si rispetta il protocollo, perciò non si avvera la richiesta. Se rapportiamo tutto all’essere, le implicazioni sono potentissime: se l’essere-non-è-ciò-che-è esso semplicemente non-è, ma che l’essere non sia, è impossibile (Severino 1982, 63)4. Dunque, l’essere, affinché sia tale, deve rispettare delle condizioni: che esso sia ciò-che-è. Essere-ciò-che-si-è è una condizione senza la quale l’essere-non-può-essere, ma questo è impossibile, dunque è una condizione che l’essere deve rispettare. È im-posto all’essere di essere, gli è imposto un protocollo: essere-ciò-che-è.

39Ecco la conclusione a cui porta la tecnica. Essa è una modalità del disvelamento, poiché essa disvela l’essere della cosa in quanto protocollato, ossia in quanto portatore di un protocollo.

40Questo protocollo, l’abbiamo già chiamato sotto il nome di protocollo ontologico, ossia protocollo che incide direttamente nell’essere della cosa. La tecnica è allora quella modalità del disvelamento che protocolla l’essere, obbligandolo a disvelarsi in quanto protocollato.

41Per Heidegger, questa modalità del disvelamento è il pericolo, poiché tradendo l’essere e la disvelatezza in quanto tale, non lascerebbe accadere la verità (Heidegger 2016, 26). In realtà, dalla nostra interpretazione protocollare sembra emergere un’altra conseguenza: che l’essere si disveli in quanto protocollato, più che rappresentare un pericolo, sembra essere una vera e propria necessità. Ciò risulterà ancora più chiaro nella prosecuzione del nostro discorso.

4.2. Ripetizione

42Che l’essenza della tecnica non sia qualcosa di tecnico, Heidegger l’ha mostrato diffusamente. Abbiamo visto come la tecnica sia quell’im-posizione che, pro-vocando, richiede il reale come fondo da essere impiegato. L’intelaiatura heideggeriana è stata mantenuta anche nella nostra interpretazione protocollare che ha tentato, arrischiando la tecnica e l’essere, di percorrere quel sentiero aperto da Heidegger stesso ma, forse, non ancora abbastanza battuto. Riassu|mendo: la tecnica, protocolla l’essere, affinché esso si disveli in quanto protocollato. La tecnica incide nell’essere della cosa un protocollo ontologico, ossia inscrive nella costellazione ontologica dell’es|sere che ha sotto-mano ciò-che-esso-è e non-può-non-essere. Va da sé che questa “incisione” operata dalla tecnica non possa essere un atto temporalmente determinato. Il protocollo ontologico, la traccia della tecnica, è ontologicamente presente e obbligante nell’essere della cosa; in altre parole, non può darsi un tempo in cui esso non-sia presente. Dato l’essere di una cosa, si dà anche il suo ciò-che-è, di conseguenza anche il suo protocollo ontologico.

43Oltre che l’essere, abbiamo visto che la tecnica coinvolge direttamente anche un altro soggetto: l’uomo. Esso, infatti, seguendo il pensiero tratteggiato nel testo che abbiamo analizzato, è pro-vocato dalla tecnica che gli impone di imporre a sua volta e di richiedere provocando l’essere delle cose. Utilizzando un’espressione già precedentemente adoperata potremmo dunque definire l’uomo come quell’essere protocollato a protocollare. Proprio su questo tema, sui rapporti intrinseci tra tecnica e uomo, Arnold Gehlen ha prodotto alcune tra le sue tesi più affascinanti e potenti.

5 | La domanda sulla tecnica: la risposta di Gehlen

44Il filosofo e antropologo tedesco, nelle sue opere, dipinge un uomo ormai smascherato, mostrato nella sua nudità animale. Nel definire l’uomo, si vedrà come ad un certo punto la tecnica risulti essere un elemento necessario all’interno del discorso. Ripercorriamo ora le tappe principali della trattazione gehleniana, facendo attenzione alla necessità dell’uomo di ospitare la tecnica.

45Gehlen prende le mosse da un frammento dell’aforisma numero sessantadue di Jenseits von Gut und Böse di Nietzsche, egli lo cita direttamente proprio nelle prime pagine della sua opera più importante, Der Mensch; così scrive Gehlen:

Nietzsche vide proprio questo allorché definì l’“uomo” come “l’animale non ancora definito”. Quest’espressione è esatta, e ha un senso duplice. In primo luogo vuol dire: non sussiste ancora un accertamento di ciò che l’uomo è propriamente, e, in secondo luogo: l’essere uomo è per qualche verso “incompiuto”, non “costituito una volta per tutte” (Gehlen 2010, 46).

46Questa prima definizione dell’uomo, ricavata direttamente da Nietzsche, sarà fondamentale per tutta l’argomentazione gehleniana. L’uomo è dunque un animale che ancora non può essere de-finito, poiché è ancora non-compiuto. Questo significa: l’uomo, preso così, senza altri elementi a disposizione non è del tutto definibile e comprensibile; in altre parole, abbiamo bisogno di qualche elemento apparentemente esterno per definire l’esser-uomo. Non essere ancora de-finiti, non essere compiuti obbliga l’uomo a doversi occupare della sua stessa esistenza, come dice Gehlen: “[…] l’uomo, nella sua mera esistenza, trova dinanzi a sé un compito, che la sua esistenza diventi il suo proprio compito e la sua impresa” (Gehlen 2010, 53).

47L’esistere stesso, per l’uomo, è già la sua impresa fondamentale, è ciò che deve fare e che non può non fare. Tutto ciò significa che: “È già per lui una bella impresa essere ancora in vita l’anno successivo, e per quest’impresa è necessario che siano mobilitate tutte le capacità dell’uomo, e da lui stesso”. (Gehlen 2010, 53)

48L’uomo, per sopravvivere, deve mobilitare tutte le sue capacità, e deve farlo lui in persona, senza aiuti direttamente fornitigli dalla natura e quindi deve assumere un determinato comportamento nei suoi stessi confronti, egli deve dirigere la propria vita, poiché il semplice vivere per lui è impossibile (Gehlen 2010, 53).

6 | Un problema non solo antropologico. Uomo e carenza

49Queste prime affermazioni pongono una questione molto importante, che di fatto poi è la questione centrale dell’analisi gehleniana. La domanda viene posta così all’interno di Der Mensch: “Come può un essere così indifeso, bisognevole, un essere così esposto conservarsi in vita in generale?” (Gehlen 2010, 55).

50È cruciale capire fino in fondo la portata della domanda. Chiedendoci questo, noi ci stiamo chiedendo: com’è possibile che l’uomo sia-ancora-qui? Che, in altre parole, significa: com’è possibile l’esser-ci dell’uomo?

51Il problema gehleniano si rivela essere bifronte, da un lato bio-antropologico: quali sono effettivamente le condizioni di sopravvivenza di un organismo che, di per sé, non è assolutamente adatto a sopravvivere? Dall’altro metafisico, poiché, come vedremo, il vero successo in termini di sopravvivenza dell’uomo, giace nella sua stessa essenza. Della metafisicità del problema, ce ne si può facilmente accorgere leggendo il testo gehleniano, che definisce così l’uomo: “L’uomo [in confronto all’animale] appare come un ‘essere manchevole’” (Gehlen 2010, 57 [corsivo mio]).

52Questa definizione, dice Gehlen, ha un valore solo transitorio, comparativo, ma aggiungo io, fondamentale per comprendere fino in fondo la portata del problema. Abbiamo già detto che l’uomo è un essere indifeso, bisognevole, inadatto a sopravvivere, eppure a discapito di ciò, è sopravvissuto. È un essere di per sé non-definito, non-compiuto. È un essere manchevole, un Mängelwesen. Emerge quindi una lacuna. Non è semplicemente un organismo a cui manca qualcosa, o perlomeno, è sicuramente un organismo a cui serve qualcosa d’altro per sopravvivere, ma è soprattutto un essere carente, ossia la sua essenza abbisogna di qualcosa d’altro per essere considerata pienamente e nel suo insieme, per essere considerata de-finita e compiuta.

53Per Gehlen, l’uomo sopravvive grazie all’azione, principalmente diretta all’esonero o agevolazione. Il fine dell’agire umano sembra dunque essere l’esonerarsi da qualcosa. Qual è l’elemento più gravoso, tra quelli già emersi, da sopportare per l’uomo? Le sue stesse condizioni d’esistenza, deficitarie ed insostenibili.

7 | Apertura al mondo e disadattamento

54L’uomo quindi, si-esonera dalle proprie condizioni, in altre parole, agevola il suo stesso vivere. L’esser uomo dunque, significa in primo luogo esonerarsi dalla propria condizione di carenza.

55Poco fa abbiamo detto che l’uomo agevola il suo stesso vivere, Gehlen definisce il vivere dell’uomo come un’apertura al mondo, termine che viene contrapposto ad ambiente. Egli dice: “L’apertura dell’uomo al mondo significa che egli difetta dell’adattamento animale ad un particolare ambiente” (Gehlen 2010, 73).

56Perché l’uomo non è adatto ad un particolare ambiente?

La non specializzazione fisica dell’uomo, la sua carenza di strumenti organici, al pari della deficienza stupefacente di autentici istinti sono dunque in connessione reciproca, il cui rovescio concettuale è la scheleriana “apertura al mondo” o, il che è lo stesso, il disancoraggio da un ambiente preciso. (Gehlen 2010, 73)

57L’uomo dunque, è un essere carente sotto più punti di vista: non ha un organismo adatto, non è specializzato fisicamente in qualcosa, ma soprattutto, essendo totalmente inadatto, non è ancorato a nessun ambiente preciso. L’uomo non ha un habitat, è semplicemente aperto al mondo. È da notare come l’inadeguatezza totale ad ogni specifico ambiente, destini l’uomo ad essere un perenne disadattato. Ma l’uomo ha ancora un’arma, come abbiamo prima visto, che risiede nell’azione, atta ad agevolare l’uomo nella sua sopravvivenza. Considerato che:

[All’uomo] Non gli sta di fronte un ambiente in cui i significati siano articolati e istintualmente ovvi, ma un mondo ― ossia, in termini negativi, un campo di sorprese, dalla struttura imprevedibile, che va elaborato, cioè esperito, con circospezione e prendendo di volta in volta misure e provvedimenti. (Gehlen 2010, 73)

58Per affrontare questo campo di sorprese, “l’uomo deve trovare a se stesso degli esoneri (Entlastungen) con strumenti e atti suoi propri, cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi in vita”. (Gehlen 2010, 73)

59 Come dicevamo prima, l’uomo deve agire su sé stesso, per esonerar-si dalle proprie carenze. L’essere aperto al mondo dev’essere trasformato da disadattamento ad ogni specifico ambiente, a possibilità reale di sopravvivenza in ogni ambiente. L’uomo quindi, deve agire, in direzione di una modificazione della propria condizione di essere carente: è un essere che deve riempire le lacune insite in lui. Non a caso, la condizione umana può essere perfettamente descritta attraverso le sue carenze, mediante tanti “non-ha”. Proviamo ora, attraverso una delle pagine più importanti del testo di Gehlen, a ripercorrere l’essenza di questo essere carente. Il testo recita:

In tutte le azioni dell’uomo accade una duplice cosa: per un verso egli padroneggia attivamente la realtà che lo circonda trasformandola in ciò che è utile alla sua vita, perché non esistono al di fuori di lui condizioni naturali d’esistenza spontaneamente adeguate ovvero perché le inadeguate condizioni di vita naturali gli riescono insopportabili; per un altro verso, egli compulsa in se stesso una gerarchia complicatissima di prestazioni, “fissa” dentro di sé un ordine strutturale di capacità, […] sì da sfociare in un sistema di controllo e subordinazione di prestazioni con le quali solo dopo lungo tempo è raggiunta la reale capacità vitale. […] In conseguenza del suo primitivismo organico, e della sua carenza strumentale, l’uomo è in-capace di vivere in ambiti realmente naturali e originari. Deve quindi surrogare i mezzi di cui organicamente difetta, e lo fa trasformando attivamente il mondo in qualcosa di utile alla sua vita. […] Per essere in grado d’esistere, l’uomo è costruito in vista di una trasformazione e di un dominio della natura, e perciò anche in vista delle possibilità di esperire il mondo: egli è un essere che agisce, poiché non è specializzato e dunque difetta dell’ambiente a lui consono per natura. (Gehlen 2010, 74-75)

60L’uomo quindi, è un essere che, difettando di un ambiente specifico a lui adatto, adatta il mondo in qualcosa di utile alla sua sopravvivenza. L’uomo è un essere che agisce nel senso della trasformazione: trasforma sé stesso, fissando dentro di sé delle prestazioni, affinché siano riproducibili fino ad un loro definitivo perfezionamento; trasforma l’ambiente che gli sta intorno, procurandosi in esso i mezzi di cui difetta e adattando il mondo a se stesso. L’uomo, in quanto essenzialmente in-adatto, non può adattar-si a nessun ambiente, ma può adattare l’ambiente. L’uomo così risulta essere in-adatto ad un ambiente ma adatto ad un mondo, a cui esso è aperto. L’uomo è, considerato in relazione al mondo a lui circostante, un adattatore. L’uomo ha nella sua essenza l’adattare ciò che gli sta attorno e addirittura sé stesso, nel tentativo di perseverare nella sua esistenza. Ma grazie a che cosa l’uomo è capace di ciò? Avevamo detto che era un essere, di per sé, carente, in-capace di sopravvivere, senza habitat, senza strumenti organici adeguati. Avevamo riassunto l’essere dell’uomo con l’espressione Mängelwesen, un essere carente. L’uomo quindi, considerato unicamente per sé stesso e senza altri elementi, a causa della sua essenziale carenza, non ha né le capacità né i mezzi per riuscire nella sua impresa di adattamento e sopravvivenza.

8 | Adattamento e protocollo

61Adattare sé stessi, fissando dentro di sé un ordine strutturale di capacità, affinché sia possibile il controllo sulle prestazioni. Cosa significa? Che l’uomo predispone qualcosa da rispettare, nel tentativo di ottenere la massima prestazione. L’uomo fissa questo qualcosa dentro di sé, un qualcosa che si deve rispettare affinché si verifichi una determinata cosa. Quest’espressione è stata già incontrata nel nostro percorso: era la definizione di protocollo. L’uomo protocolla sé stesso affinché in lui vengano registrati dei protocolli d’azione, delle istruzioni da eseguire per ottenere una prestazione desiderata. L’uomo, non solo adatta sé stesso, ma anche l’ambiente, in modo che esso sia adatto a lui. L’uomo adatta l’ambiente invece di adattar-si ad esso, che in altre parole significa dire che l’uomo trasforma il mondo a cui esso è aperto così che esso si presenti in un determinato modo. Egli agisce sull’ambiente a sé circostante protocollandolo, ossia stabilendo cosa esso deve essere e cosa esso non deve essere. In termini pratici significa dire che l’uomo adatta l’ambiente esterno in modo tale che esso sia-adatto per essere vissuto. L’ambiente viene adattato, ossia protocollato. Il terreno, di per sé inutile alla vita, diventa un campo su cui coltivare, diventa utile alla sopravvivenza. Attraverso l’attività del protocollare, l’uomo adatta il mondo in modo da fornirsi dei mezzi per sopravvivere, egli lo adatta così da averlo a disposizione.

9 | L’essenza dell’uomo

62La chiave di volta di cui poco prima parlavamo sta in un’af|fermazione di Gehlen, contenuta in Die Seele im technischen Zeitalter (L’uomo nell’era della tecnica). Così recita il testo: “Se per tecnica, si intende l’insieme delle capacità e mezzi con cui l’uomo mette la natura al suo servizio […], allora la tecnica, in questo senso più generale è insita già nell’essenza stessa dell’uomo” (Gehlen 2003, 33).

63L’essenza dell’uomo è quella di essere un esser-tecnico, ossia un essere che dispone di capacità e mezzi per mettere la natura al suo servizio. Ecco come l’uomo colma le sue lacune, ecco come l’essere carente colma la sua carenza, con la tecnica.

64Da totalmente inadatto l’uomo diventa, paradossalmente, adatto a qualsiasi ambiente, dal momento che dispone dell’insieme di capacità e mezzi per poterlo sfruttare e servirsi di esso. La tecnica è insita nell’essenza stessa dell’uomo, poiché è nell’essenza stessa dell’uomo che sta insita la possibilità necessaria che egli metta a disposizione il mondo che lo circonda. L’uomo è possibile solo grazie alla tecnica, senza di essa, l’uomo è un inadatto a sopravvivere, è un essere in-compiuto: la tecnica rende l’uomo un essere compiuto, dà compiutezza ontologica all’esser-uomo, completando quell’essenza che sembrava anzitempo carente.

65Notiamo per la seconda volta che la tecnica sia ben più che le sue semplici applicazioni, e che la discussione intorno ad essa coinvolga sempre più l’essere, l’essenza dell’uomo e non solo. Per Heidegger la tecnica era un modo del disvelamento dell’essere, per Gehlen è l’essenza dell’uomo, giace nell’esser-uomo. Sembra proprio vero ciò che diceva Heidegger: “L’essenza della tecnica non è alcunché di tecnico”.

66Proviamo ora, ad approfondire l’ultima affermazione citata di Gehlen, rapportandola sì all’uomo, ma in particolare all’esser-uomo, facendo attenzione ad ogni sfumatura celata in essa. Riprendendo la citazione di Gehlen possiamo dire innanzitutto che la tecnica è un insieme di capacità e mezzi. Quando parliamo di capacità e mezzi, implichiamo da un lato la pura strumentalità della tecnica (mezzi), dall’altro qualcosa di più radicale, racchiuso nella parola capacità.

67Per esemplificare la coppia concettuale mezzi-capacità potremmo fare un esempio: per quanto riguarda il “suonare una chitarra”, c’è un mezzo per suonarlo ed una capacità di saperla suonare. Senza uno dei due termini naturalmente non si dà una definizione esaustiva del “suonare una chitarra”, dal momento che quest’ultima indica l’unione del substrato materiale, lo strumento (la chitarra), con il suonare effettivo, ossia la capacità di suonare. È altrettanto naturale che per suonare un qualsiasi strumento si abbia bisogno di una capacità personale, fondata sull’esercizio, la ripetizione ed il perfezionamento progressivo: prendere in mano uno strumento non equivale a suonarlo, quindi la capacità sembra essere qualcosa in più del semplice prendere in mano l’oggetto e farne un uso generico. Della tecnica come instrumentum, mezzo, ne abbiamo parlato quando abbiamo discusso La questione sulla tecnica di Heidegger, e abbiamo evinto che la rappresentazione della tecnica come strumento è sì esatta, ma non per questo essenziale (Heiddeger 2016, 6). In poche parole, considerata solo in quanto mezzo, la tecnica non dischiude la sua vera essenza. Proviamo allora a vedere se l’altro termine con cui Gehlen definisce la tecnica, ossia capacità, ci aiuta nel nostro intento, quello di rispondere alla domanda che cos’è la tecnica?

10 | Capacità e carenza

68Prima abbiamo detto che capacità è per esempio saper suonare uno strumento, ma un saper-suonare è comunque un saper-fare. La dimensione del saper-fare qui non si può scartare a priori: posso conoscere perfettamente il funzionamento di un pianoforte e tutta la teoria che ruota attorno ad un qualsiasi brano, ma essere comunque completamente non-capace di suonarla. Il suonare implica un saper-suonare, dunque, un saper-fare. Una capacità, in genere, si possiede; si dice: qualcuno “ha-una-capacità”, non, “qualcuno è-una-capacità”. “Qualcuno ha una capacità” è sinonimico di “qualcuno è capace” e, tendenzialmente, quando qualcuno è capace, egli è capace-di qualcosa di specifico. Ma allora avere una capacità, anzi, ancora più in generale, la dimensione più propria della capacità, ossia l’essere-posseduta, coinvolge l’essere di colui che la possiede, poiché chi ha una data capacità, è, de facto, capace-di. Avere una capacità significa dunque “essere-capaci-di”. La capacità coinvolge l’essere del soggetto che la detiene, e ne modifica lo status ontologico: un essere che ha una capacità è un essere-capace-di. Se vogliamo ulteriormente approfondire il significato di capacità, è doveroso ricordare l’origine della parola, derivante dal latino capacitas, termine derivato di capax, -acis, sostantivo adoperato per definire qualcosa “atto a contenere”. La capacità dunque è la caratteristica di qualcosa che è capace, dunque, in senso originario, che riesce a contenere. Questa dimensione quantitativa della capacità ci è molto utile per comprendere a pieno come essa modifichi l’essere che viene definito capace-di.

69L’uomo, nella visione gehleniana è stato più volte mostrato come un essere che, senza tecnica, può essere perfettamente definito come un Mängelwesen, un essere-carente. La tecnica colma quella carenza. Essa riempie l’essere dell’uomo rendendolo capace-di, de-finendolo, portandolo a compiutezza. L’uomo è capace in quanto è “atto a contenere” la tecnica, e lo è solo grazie alla tecnica stessa.

70La tecnica dunque, soprattutto in quanto capacità, punta dritta all’essenza del soggetto che la possiede, perché ne modifica ontologicamente l’essere. Da semplice essere, il soggetto che detiene la tecnica diventa un esser-capace. La tecnica, in questo caso, essendo l’insieme delle capacità, rende l’uomo capace-di. Ricapitolando: l’uomo senza tecnica è un in-capace, un non-capace-di. Ma non-capace di cosa? Tornando a Gehlen: “[la tecnica è quell’insieme di] capacità e mezzi con cui l’uomo mette la natura al suo servizio”.

11 | Necessità tecnica e sopravvivenza

71Eccoci arrivati al punto: senza la tecnica l’uomo è non-capace-di mettere la natura al suo servizio. Ma se l’uomo non-è-capace-di mettere al suo servizio la natura, l’uomo, gettato in essa, è destinato all’estinzione.

72Lo stesso Gehlen ci suggerisce che senza la tecnica l’uomo non sopravvivrebbe più di un anno, ed ha perfettamente ragione. Immaginiamo l’uomo senza alcun margine di tecnicità, ispirandoci alla lezione gehleniana. Innanzitutto: come affronterebbe l’uomo, senza tecnica, le difficoltà ambientali? Un uomo è immerso in un ambiente molto freddo: egli non è dotato di pelliccia, né di strati di grasso sufficientemente spessi da garantire un qualche isolamento termico. In poche parole, non dispone di un equipaggiamento che gli permetta di resistere a temperature troppo rigide, non ne ha i mezzi né le capacità. L’uomo, senza tecnica, in questo scenario immaginario, morirebbe assiderato. Si potrebbe obiettare che l’uomo non-tecnico5 vivesse in condizioni ambientali ottimali; ebbene, anche ammesso ciò, come e cosa mangerebbe l’uomo non-tecnico? Egli, infatti, non ha “armi” naturali, per esempio artigli o zanne, non ha così tanta forza fisica rispetto ad animali della stessa taglia, per non dire superiori, ma allo stesso tempo non è abbastanza veloce per prendere quelli più piccoli (Gehlen 2010, 75)6. Potrebbe mangiare solo vegetali, ma anche così non saprebbe come raccogliere i frutti più alti, ma nemmeno saprebbe riconoscere quali frutti sono letali e quali no, perché ricordiamoci che tecnica è anche l’insieme delle disposizioni che l’uomo fissa dentro di sé, e sapere cosa si può e cosa non si può mangiare, fa parte proprio delle sopracitate disposizioni. Quindi, anche ammesso, in ultima sede, che un uomo senza tecnica possa al più essere un animale che sopravvive solo in un determinato ambiente con una determinata temperatura favorevole, con a disposizione del cibo determinato, oltre al fatto che difficilmente un siffatto organismo sarebbe considerato un uomo, tutto ciò andrebbe nella direzione opposta delle nostre precedenti conclusioni, andando in evidente contraddizione con tutto quello che dell’uomo abbiamo dato precedentemente per vero, ossia che senza tecnica egli sia un in-adatto, quindi un animale senza un determinato ambiente a lui favorevole, senza nulla a lui a disposizione. L’uomo, senza tecnica, è, una volta per tutte, un non-uomo.

73È così smentita ogni possibilità di parlare di un uomo senza tecnica, poiché senza tecnica, l’uomo non mette a disposizione il mondo che lo circonda, e se l’uomo non dovesse fare ciò, sarebbe destinato a non sopravvivere. Senza la tecnica l’uomo è essenzialmente un essere non-capace-di-sopravvivere (Cfr. Galimberti 2016, 118)7. Ma la sopravvivenza, in questo caso, è qualcosa di estremamente essenziale. L’uomo senza tecnica è non-capace-di-sopravvivere abbiamo detto, ma in fin dei conti ciò implicherebbe dire, tra le righe, che senza tecnica l’uomo non-è-capace-di-essere-uomo, che è quell’animale capace-di-sopravvivere nel corso della storia, grazie al suo essere-capace di mettere la natura al suo servizio. Quindi la tecnica non solo è fondamentale per la sopravvivenza biologica dell’uomo, ma per la sopravvivenza dell’esser-uomo. Senza tecnica l’uomo-non-è-uomo. Ecco perché, nelle pagine precedenti, ho richiamato l’attenzione sul fatto che il problema evocato da Gehlen e dalla sua definizione di uomo come essere-carente, fosse un problema bifronte: sì bio-antropologico, ma anche e soprattutto ontologico. La tecnica è fondamentale nell’ontologia dell’uomo, nell’esser-uomo stesso.

74Essa, possiamo dire, è conditio sine qua non dell’esser-uomo. La tecnica è la capacità-fondamentale, in senso profondo, dell’esser-uomo. Con la tecnica l’uomo è un essere-capace-di-essere-uomo, essendo l’uomo quell’essere capace di mettere la natura al suo servizio grazie alla tecnica.

12 | Risposta alla domanda

75Cerchiamo ora di rispondere in maniera fondamentale alla domanda che abbiamo posto all’inizio del nostro percorso: che cos’è la tecnica? In primo luogo, la tecnica è quella cosa senza la quale l’uomo non-è uomo: l’uomo senza tecnica non può essere-uomo e abbiamo visto la duplice valenza di questa espressione, da un lato bio-antropologica, dall’altro propriamente ontologica. L’uomo è tale (è ciò che è, è uomo) proprio in quanto capace-di-essere-ciò-che-è. Questa capacità è possibile per lui solo grazie alla tecnica. Ma questo “capace-di-essere-ciò-che-si-è” è una vera e propria modalità d’essere: è il modo dell’essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è, una modalità dell’essere in cui la tecnica gioca un ruolo fondamentale8.

76Abbiamo già incontrato un luogo in cui tecnica ed essere sembravano avvicinarsi, infatti, nell’analisi heideggeriana dell’essenza della tecnica essa veniva mostrata come molto più vicina al disvelamento, all’essere, piuttosto che al “tecnico” sic et simpliciter. Lavor|ando sul testo di Heidegger, è emersa nella nostra interpretazione una definizione, quella di protocollo. Quest’ultimo, rapportato all’essere, si era dimostrato come la disposizione ontologica implicante il “ciò-che-è” dell’essere di una cosa protocollata. Lo avevamo chiamato protocollo ontologico, in modo da sottolineare come il protocollo che la tecnica im-pone richiedendo e pro-vocando l’essere (Herausfordern) nell’im-posizione (Gestell), si riflette nell’essere stesso della cosa.

77Attraverso i testi di Gehlen, interpretando ontologicamente la definizione di tecnica a cui il filosofo tedesco era pervenuto, siamo giunti ad un’altra modalità dell’essere in cui la tecnica è implicata, quella dell’”essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è”. Quest’ultima modalità non è meno importante di quella precedentemente citata. Entrambe, infatti, coinvolgono l’essere stesso della cosa dalla tecnica maneggiata, ed entrambe, lo fanno im-ponendo una sorta di aut-aut:

  1. Tecnica in quanto protocollo: o l’essere della cosa rispetta il proprio protocollo ontologico, che stabilisce il ciò-che-è della cosa in questione, che è ciò che il protocollo le ha imposto di essere, o l’essere della cosa non-è-ciò-che-è. Ma questo è impossibile, poiché mai l’essere potrà non-essere. Dunque, quando l’essere viene protocollato, esso è ciò che il protocollo ha im-posto che esso sia. L’essere che ha subito il protocollo ontologico è ciò che il protocollo gli ha im-posto d’essere.
  2. Tecnica in quanto capacità-di-essere-ciò-che-si-è: o l’essere della cosa è capace di essere ciò che esso è, o non è capace di esserlo. Ma se l’essere della cosa non è capace di essere ciò che esso è allora, semplicemente, non-è. Ma questo è impossibile, poiché, come abbiamo più volte detto, mai l’essere potrà non-essere.

13 | Ontotecnica, ovvero tecnica ed essere: un rapporto vincolato e necessario

78Come si può facilmente notare, la scelta non è libera. La tecnica im-pone all’essere della cosa un aut-aut a cui in realtà si può rispondere in un solo modo. Ciò che emerge, dunque, è una potente necessità: l’essere della cosa deve rispettare il protocollo, altrimenti esso non è, ma ciò non può essere, dunque necessariamente l’essere della cosa deve rispettare il protocollo. La stessa cosa vale per l’altra modalità dell’essere: l’essere deve necessariamente essere-capace-di-essere-ciò-che-è, altrimenti, esattamente come prima, si cade nuovamente in ciò che non può in alcun modo essere, ossia, che l’essere-non-sia. La tecnica, perciò, è espressione di due modalità dell’essere fondamentali, in quanto essenzialmente necessarie affinché l’essere della cosa sia ciò che esso è.

79Abbiamo parlato di essere-della-cosa, ma per “l’essere”, vale la stessa cosa? Anche l’essere sic et simpliciter deve necessariamente rispondere all’im-posizione tecnica?

80Certamente la tecnica influisce in maniera decisiva nell’essere della cosa, dal momento che quest’ultima è ciò che è in virtù della tecnica, ma la domanda veramente fondamentale è: anche “l’essere” è ciò che è in virtù della tecnica?

81L’essere è ciò che è e non può non essere, così ci insegna Parmenide. Ma che cos’è questa affermazione se non un fondamentale protocollo? L’essere deve essere ciò che è, altrimenti non-è, ma è impossibile che esso non-sia. In altre parole: l’essere deve rispettare il proprio protocollo ontologico, ossia che esso è e che non può non-essere. Nell’essere giace questo protocollo, senza il quale, l’essere stesso non sarebbe possibile, poiché l’essere non può non essere ciò che esso è, in generale, non può non essere. Ma abbiamo detto che è la tecnica l’im-posizione del protocollo ontologico, dunque anche l’essere subisce ed è fondato dalla tecnica.

82La presenza inequivocabile della tecnica nell’orizzonte dell’essere è ancora più evidente con la seconda modalità dell’essere in cui la tecnica gioca un ruolo fondamentale. L’essere, infatti deve necessariamente essere-capace-di-essere-ciò-che-è, poiché, se così non fosse, esso sarebbe non-capace-di-essere-“essere”, dal momento che l’essere è ciò che è. Ma, nuovamente, se l’essere non è ciò che è, esso non-è, e questo non potrà mai essere.

83Dunque, essendo l’essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è una modalità dell’essere, come abbiamo visto precedentemente, necessaria e vincolante al pari del protocollo ontologico, ed essendo essi impossibili senza la tecnica, quest’ultima, arrivati a questo punto, non può che non essere riconosciuta come decisiva anche nell’essere dell’essere stesso, dal momento che anche l’essere per essere (e non potrebbe altrimenti) deve rispettare quelle due modalità tecniche dell’essere. In altre parole, la tecnica è, come nel caso dell’essere-uomo, conditio sine qua non dell’essere.

84Che cos’è dunque l’ontotecnica? È la modalità tecnica dell’essere fondamentale anche per l’essere stesso. È la compenetrazione reciproca ed attiva di quelle due modalità dell’essere dominate dalla tecnica appena viste, il protocollo e l’essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è. È ciò in virtù del quale le cose e l’essere stesso sono ciò che sono; nel caso dell’essere, è la ragione per cui l’essere è.

85Riflettendo sulla definizione di ontotecnica, con lo scopo di approfondirla ulteriormente, possiamo intraprendere una rapida e generale analisi del concetto di ontologia, mostrando i rapporti reciproci dei due concetti.

14 | Un bivio: Ontotecnica od ontologia, ovvero tecnica o logos

86L’ontologia è logos intorno all’essere, logos circa l’essere. Se una delle due parole è già stata affrontata nel corso di questo testo, per quanto l’afferrarla nella sua pienezza sia da sempre una sfida della filosofia, proviamo ora a concentrarci su logos. Questa parola di origine greca è stata, nel corso della storia, una di quelle parole sulla quale non si è mai smesso di pensare. Sul logos più di una volta è tornato il pensiero di Heidegger; qui intendo prendere in esame poche righe tratte da tre testi differenti: Sein und Zeit, Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache e Logos. In Essere e tempo, Heidegger tratta così del logos:

Se diciamo che il significato fondamentale di λόγος è parlare, questa traduzione letterale acquista la sua piena validità in base alla determinazione che si dà del significato stesso di parlare. […] Il significato di λόγος come parlare equivale piuttosto a δηλοῦν, far palese ciò di cui nel parlare “si fa parola”. […] Nel parlare (ἀπόφανσις), se è genuino, il che cosa contenuto nel parlare dev’essere attinto da ciò su cui si parla, cosicché la comunicazione parlata, nel suo dettato, palesi ciò su cui parla e lo renda accessibile ad altri (Heidegger 2006, 105-107).

87Il logos, dunque, è quel parlare che rende accessibile il che cosa della cosa di cui si parla. Quindi in questo breve passo tratto da Sein und Zeit, possiamo dedurre due fondamentali dimensioni del logos: il linguaggio (parlare) e la presenza (rendere accessibile il che cosa). Nel testo ricavato dal corso del 1934, troviamo presente una definizione ancora più asciutta del connubio logos-parlare:

Il λόγος significa del tutto generalmente dire e parlare, dire e parlare in un significato del tutto determinato, in un senso colto in modo del tutto determinato, ossia come λόγος ἀποφαντικός. Questo dire è il dire che ha in sé la capacità e la tendenza a mostrare e ad indicare. Nel λόγος che mostra ed indica risiede l’essenza dell’asserzione. […] Il λόγος assertivo dice come una cosa è e come una cosa si comporta (Heidegger 2008, 5-6).

88Anche in questo passaggio sono presenti quelle due dimensioni di cui prima andavamo dicendo: il logos inteso nel senso del “dire e parlare”, nello specifico del dire “come una cosa è e come una cosa si comporta”, che equivale al rendere accessibile il che cosa della cosa detta presente in Essere e tempo. Quindi, già da questa breve analisi, possiamo dedurre che il logos abbia a che fare con il linguaggio, e che sia addirittura traducibile con “linguaggio”, a patto però di considerare quest’ultimo nella sua interezza e nei suoi rapporti con l’essere. Nell’ultimo testo, il più recente, la dimensione della presenza diventa predominante. In un passaggio fulminante Heidegger defi|nisce così il logos:

Il raccogliente posare, come Λόγος, ha deposto tutto, ciò che è presente, nella disvelatezza. Il posare è un mettere al riparo (Bergen). Esso mette al riparo ogni presente nella sua presenza, dalla quale propriamente questo di volta in volta può essere andato a prendere e pro-dotto come un determinato presente ad opera del λέγειν dei mortali. Il Λόγος posa dinnanzi nella presenza e de-pone il presente nella presenza, cioè ve lo ri-pone. Esser-presente (An-wesen) significa tuttavia: durare essendo apparso nella disvelatezza. In quanto il Λόγος lascia stare-dinnanzi come tale ciò che sta dinnanzi, esso disvela (entbirgt) il presente nella sua presenza. Ma il disvelare è l’Ἀλθήεια. Questa ed il Λόγος sono la stessa cosa. (Heidegger 2016, 150)

89Logos e aletheia sono la stessa cosa. Logos e disvelare sono la medesima cosa. Potremmo dunque dire che il è un modo attraverso il quale l’essere viene ri-posto nella presenza. Il logos, inteso nella pregnante visione del posare-raccogliente, prende l’essere e lo pone nella presenza. Il logos, dunque, è una modalità stessa dell’essere, attraverso la quale esso si manifesta. C’è una sfumatura da notare in quest’ultima affermazione: non è l’essere a manifestar-si, ma il logos a manifestar-lo. Il dire, inteso in senso originario, raccoglie e ri-pone l’essere nella disvelatezza. L’essere viene raccolto e viene deposto nella presenza. L’essere sembra subire il linguaggio, subire il dire originario. Esser-raccolto e deposto sono entrambi voci al passivo. Il linguaggio agisce sull’essere, lo ri-pone nella presenza. Tutto questo, non può che ricordare ciò che alcune pagine addietro dicevamo della tecnica, essa richiede l’essere e gli impone di manifestarsi nella presenza. In entrambi i casi, che sia la tecnica con la sua im-posizione od il linguaggio con il suo posare-raccogliente, l’essere è spettatore, esso, ripetiamo, viene posto nella presenza. Linguaggio e tecnica sono entrambi modi del disvelamento, tra l’altro molto simili tra loro. Sia l’uno che l’altro agiscono sull’essere, portandolo a presenziare nella disvelatezza. Ma, ora che linguaggio e tecnica sembrano così vicini9 in una questione così cruciale come quella relativa all’aletheia, forse risulterà decisivo rivedere i rapporti intercorrenti tra l’uno e l’altra. Abbiamo detto che il linguaggio ri-pone l’essere nella presenza, però, per farlo, deve comunque anch’esso essere, poiché se il linguaggio è ciò che ri-pone l’essere nella presenza, deve innanzitutto essere. Proviamo ad andare ancora più a fondo. Abbiamo definito il protocollo, inteso ontotecnicamente, come il “ciò che una cosa è e ciò che essa non è”, poiché se una cosa non rispetta il proprio “ciò-che-è” essa non-è, ma questo non può darsi, dunque l’essere della cosa è obbligato a rispettare il proprio protocollo ontologico, ossia il proprio “ciò-che-è”. Il linguaggio non è esente da ciò: se esso è-ciò-che-è lo è in virtù del protocollo, che, come si è appena detto, corrisponde al ciò-che-è della cosa. Inoltre, anche ragionando in maniera molto pratica, il linguaggio è un grande insieme di protocolli: una lettera dell’alfabeto, per esempio, per essere quella lettera e non un’altra, deve essere pronunciata (ma vale lo stesso anche se fosse scritta) in un determinato modo senza il quale essa semplicemente non si dà in quanto tale, e quest’ultima proposizione coincide con la nostra definizione preliminare di protocollo. Lo stesso Gehlen ci suggerisce che il linguaggio sia un “perfezionamento altissimo” di quel modo umano di agire, ossia quello mirato all’agevolazione e all’esonero. E in che cosa il linguaggio può essere utile, in che modo può essere usato affinché agevoli l’uomo nel suo vivere? Un passo di Jaspers include tutte quelle funzioni che il linguaggio opera, agevolando così l’uomo: “In virtù del linguaggio è possibile ricordare, custodire, edificare e sviluppare la conoscenza” (Jaspers 1993, 111). E che cos’è tutto ciò se non il “sapere acquisito”? E in quale modo il “sapere acquisito” può essere utile nella sopravvivenza dell’uomo? Abbiamo già incontrato la risposta: l’uomo “fissa dentro di sé” un ordine preciso e determinato di prestazioni, atte a semplificare sempre di più la sua opera di auto-esonero. Il linguaggio è anche esso un atto tecnico, e mira ad agevolare l’uomo nella “fissazione” del sapere acquisito. Possiamo quindi concludere che il linguaggio è fondato dalla tecnica, poiché esso è ciò che è in virtù della tecnica. Esso lo è, in ultimo luogo, anche perché per “essere”, qualcosa deve essere-capace-di-essere-ciò-che-esso-è. Perciò il linguaggio, per essere linguaggio, deve essere-capace-di-essere-linguaggio, ma quest’ultima modalità dell’essere è una modalità ontotecnica dell’essere, come abbiamo mostrato nei paragrafi precedenti.

90Il nostro bivio, tra ontologia ed ontotecnica è ora più facile da affrontare, poiché non si tratta più di un bivio. Il “logos-dell’essere” è implicitamente contenuto nella “tecnica dell’essere”. L’ontologia è implicitamente fondata dall’ontotecnica.

15 | Conclusioni

91Attraverso l’analisi dei testi di Heidegger e Gehlen si è pervenuti a queste due modalità dell’essere, entrambe operanti sotto il segno della tecnica. Entrambe le modalità sono risultate fondamentali per l’essere, in quanto condizioni senza le quali l’essere non può essere ciò che esso è. Per riunire le due modalità, il protocollo e l’essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è, essendo due modalità che toccano l’essenza sia dell’essere che della tecnica, è stato introdotto un nuovo termine: ontotecnica. Nell’ontotecnica, le due modalità sono ri-unite e si compenetrano, senza mai stare laddove l’altra non c’è: sono da considerare come una cosa sola.

92Del linguaggio abbiamo prima detto che per essere, deve essere-capace-di-essere-ciò-che-è. Ma questo, non vale forse per tutto ciò che è? Se una qualsiasi cosa è quella determinata cosa, essa deve essere-capace-di-essere-ciò-che-essa-è, inoltre, deve rispettare quel protocollo inscritto nel suo essere, deve essere-ciò-che-è, altrimenti, in entrambi i casi, si dà un essere che non-è.

93Tutte le cose quindi, per essere tali, devono: innanzitutto essere, inoltre esse devono essere-ciò-che-sono ed infine essere-capaci-di-essere-ciò-che-sono; in una sentenza: esse devono ontotecnicamente essere.

94Il risultato di questo percorso può essere quindi riassunto in ciò: che l’essere ontotecnicamente è, e se l’essere ontotecnicamente è, allora tutto ciò che è, poiché con l’essere viene anche tutto-il-resto, ontotecnicamente è ciò che è.

    Notes

  • 1 “[Il pensiero scientifico] producendo la concettualità anticipante, provoca l’oggettività dell’ente, ossia chiama l’ente ad apparire nell’orizzonte predisposto dell’oggettività. […] L’ente cioè è chiamato (provocazione scientifica) nell’orizzonte dell’oggettività, anticipato dalla scienza, affinché sia disponibile a ogni richiesta d’impiego (provocazione tecnica) da parte dell’uomo”.
  • 2 Su ciò cfr. infra §4.1.
  • 3 In nota Gianni Vattimo scrive così: “Questo termine significa, letteralmente, “scaffale”, “scansia” e “intelaiatura”. Heidegger lo usa in un senso peculiare, che lo ricollega al significato del prefisso Ge- inteso come costituente un nome collettivo, e al verbo stellen (porre) con tutti i suoi derivati, ad es.: vor-stellen: rappresentare; her-stellen: produrre; bestellen: ordinare; nach-stellen: dar la caccia, tendere insidie. Stellen, d’altro canto, ha anche il senso di “fermare qualcuno chiedendogli qualcosa” […]. Con il prefisso ge- la parola viene a indicare l’insieme di tutto il modo di essere dell’uomo che si incentra nello Stellen, cioè nel porre la natura come oggetto a cui si chiede ragione, nel senso del “principium reddandae rationis” di cui Heidegger parla in Der Satz vom Grund (Heidegger 1957). Ho creduto di rendere l’insieme di questi significati con il termine italiano im-posizione (che, tra gli studiosi […] di Heidegger, è anche adottato, con qualche riserva, da U. Regina (1974, 290); la lineetta sottolinea che si tratta di un uso peculiare in cui è centrale il riferimento al “porre”. Anche il significato comune va tuttavia tenuto presente, come sembra potersi ricavare da qualche indicazione di Heidegger stesso, che parla, a proposito dell’essenza della tecnica, di una imposizione o costrizione in senso proprio”. Umberto Galimberti (2017, 403), in nota, dopo aver riportato la sopracitata spiegazione di Vattimo, precisa: “Da parte mia, alla parola ‘im-posizione’ preferisco la parola ‘impianto’, dove, al senso del carattere ‘impositivo’ e ‘costringente’ si aggiunge la valenza che fa riferimento all’organizzazione totale in cui la tecnica si esprime”. Decido di mantenere la traduzione di Gianni Vattimo, poiché im-posizione coglie meglio, rispetto ad impianto, sia la dinamicità tecnica, il suo ruolo estremamente attivo e non-reattivo, sia l’atto di obbligare, chiamare a rispondere. Impianto è certamente una traduzione che coglie l’aspetto dell’obbligo che costringe, la rigidità della richiesta, ma tende ad eliminare l’atto stesso, che invece è contenuto nel Ge-stell di Heidegger, dove i verbi e i sostantivi da esso convocati si ritrovano riuniti in un unico termine, proprio come indica Vattimo.
  • 4 “Per ridestare la verità dell’essere, che sin dal giorno della sua nascita giace addormentata nel pensiero occidentale, si dovrà pur sempre penetrare il senso di questo semplice e grande pensiero: che l’essere è e non gli è consentito di non essere”.
  • 5 Gehlen non considera, sin dall’inizio della sua trattazione, questa ipotesi. Egli infatti così scrive: “La tecnica è vecchia quanto l’uomo” (Gehlen 2003, 32).
  • 6 “[L’uomo] deve dunque surrogare i mezzi di cui organicamente difetta, e lo fa trasformando attivamente il mondo in qualcosa di utile alla sua vita. Si deve “preparare” le armi difensive e offensive che mancano al suo organismo, e analogamente il nutrimento che la natura non gli mette affatto a disposizione, al quale scopo deve fare esperienze concrete e sviluppare oggettive e adeguate tecniche di elaborazione. Deve provvedere per proteggersi dalle intemperie, alimentare e crescere i suoi figli, che permangono inetti per un tempo enormemente lungo, e già per questa necessità elementare ha bisogno della collaborazione e quindi dell’accordo”.
  • 7 “[S]enza l’attivazione di una tecnica in grado di elaborare le condizioni naturali, l’uomo non avrebbe potuto sopravvivere”.
  • 8 Si potrebbe qui obiettare che la tecnica riguardi la modalità dell’essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è solo nel caso dell’uomo. A questa obiezione si può rispondere, penso, in questo modo: il fatto che l’uomo sia capace di essere uomo grazie alla tecnica lo si può dimostrare, per così dire, a posteriori, ovvero mostrando che un uomo senza tecnica non sarebbe mai stato capace di sopravvivere, e che dunque la sua essenza sia quella di mettere la natura a sua propria disposizione (cfr. supra, §11). Essendo questa una capacità possibile nell’uomo solamente grazie alla tecnica, essa rende de facto l’uomo capace di essere uomo, dunque capace-di-essere-ciò-che-esso-è. Questa capacità è una vera e propria modalità dell’essere: l’essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è. Ipotizziamo ora che qualcosa non sia capace di essere ciò che è; se così fosse, essa non sarebbe ciò-che-è, ma questo è impossibile. Ogni cosa dunque deve essere-capace-di-essere-ciò-che-essa-è. Quest’ultima affermazione sembra essere molto vicina, se non comple|mentare alla definizione di protocollo e a tutto ciò che da esso consegue. Se qualcosa non è capace di essere sé stessa, non è, ma ciò è impossibile, quindi ogni cosa deve essere-capace-di-essere-ciò-che-essa-è, ogni cosa deve seguire questa modalità dell’essere. Condizioni da rispet|tare affinché si verifichino determinate conseguenze (protocollo): se una cosa non è capace di essere sé stessa non si verifica la conseguenza che, però, deve verificarsi, ovvero che la cosa stessa sia. Il carattere impositivo e vincolante della modalità dell’essere-capaci-di-essere-ciò-che-si-è, unitamente al suo carattere effettivamente protocollare, mostra la traccia della tecnica anche in questa modalità dell’essere, dunque al di là di ogni singola cosa e quindi anche al di là del singolo esser-uomo.
  • 9 Per approfondire i rapporti tra tecnica e linguaggio si rimanda al contributo di Aurora presente in questo stesso volume (Aurora 2021).

References

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Publication details

Published in:

Grigenti Fabio, Aurora Simone (2021) Fenomenologia e tecnica. Genève-Lausanne, sdvig press.

Pages: 45-79

Full citation:

Amore Giulio (2021) „Ontotecnica: essere e uomo di fronte alla tecnica“, In: F. Grigenti & S. Aurora (eds.), Fenomenologia e tecnica, Genève-Lausanne, sdvig press, 45–79.